Hassan Nasrallah è morto sulla strada della liberazione della Palestina

di Ali Abunimah,

The Electronic Intifada, 28 settembre 2024. 

Un ritratto del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, a Beirut il 21 settembre 2024. Il leader del gruppo di resistenza libanese è stato assassinato da Israele in un massiccio attacco aereo sul sobborgo meridionale di Beirut, venerdì 27 settembre. OLA NEWS/SIPA/Newscom

L’assassinio da parte di Israele di Hassan Nasrallah, il segretario generale di Hezbollah, in un apocalittico attacco dinamitardo nel sobborgo meridionale di Beirut, venerdì 27, è probabile che, almeno nel breve termine, provochi un enorme shock, disperazione e demoralizzazione tra i sostenitori della resistenza al sionismo in Libano e in tutta la regione.

Questo è esattamente ciò che intendeva fare.

Confermata da Hezbollah sabato 28, l’uccisione di Nasrallah arriva dopo una serie di successi tattici israeliani nelle fasi iniziali dell’attacco su larga scala al Libano, un assalto a tempo indeterminato che potrebbe eguagliare in barbarie il genocidio di Tel Aviv in corso a Gaza.

Sono pensieri terribili e difficili da assimilare dopo quasi un anno di genocidio.

Prima ci sono stati gli attacchi ai cercapersone e ai walkie-talkie, seguiti da una serie di omicidi di leader di Hezbollah e ora del capo dell’organizzazione stessa.

Come ha ammesso lo stesso Nasrallah nel suo ultimo discorso, l’organizzazione ha subìto un duro colpo con gli attacchi ai cercapersone. Il peggio doveva ancora arrivare. Chiaramente ci sono state gravi falle nella sicurezza libanese.

La statura di Nasrallah come pensatore tattico e strategico, come leader più importante e fidato dell’Asse della Resistenza e come personalità capace di ispirare e rassicurare i sostenitori anche nei momenti peggiori, non può essere sopravvalutata.

L’euforia in Israele, a Washington e in alcune capitali arabe, sarà superata solo dal dolore dei sostenitori di Nasrallah, che sono molto più numerosi.

E non c’è dubbio che la perdita sia reale e grande dal punto di vista di una resistenza che affronta non solo il formidabile arsenale di Israele, ma anche tutte le risorse degli Stati Uniti e dell’Occidente collettivo.

La capacità di Israele di portare a termine questa serie di attacchi in rapida successione farà vacillare la fiducia di molti nella leggendaria abilità e sicurezza operativa di Hezbollah.

Gli attacchi serviranno a ripristinare il prestigio che Tel Aviv ha perso tra i suoi sostenitori occidentali e arabi, dopo un anno di fallimenti militari a Gaza e l’incapacità di impedire l’offensiva militare di Hamas che ha spazzato via la Divisione Gaza dell’esercito israeliano il 7 ottobre 2023.

E sebbene Hezbollah abbia martellato con razzi le risorse militari israeliane e gli insediamenti nel nord della Palestina storica, molti nella regione si chiedono perché la risposta del gruppo di resistenza all’escalation di aggressioni di Israele non sia stata più dura e severa – anche quando Israele ha intensificato i bombardamenti sui civili in tutto il Libano e nella sua capitale.

Un’altra domanda sulla bocca di molti è perché l’Iran, che ha giurato ritorsioni dopo l’assassinio da parte di Israele del leader di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran nel mese di luglio, abbia agito con tanta moderazione. C’è una crescente percezione che la sua mancanza di risposta abbia solo incoraggiato la violenza sempre più sfacciata di Israele.

Ma “Shock and awe” non è una vittoria

In mezzo alla situazione in rapida evoluzione e al torrente di emozioni dopo un anno di genocidio in livestreaming a Gaza, ora esteso al Libano, è difficile mantenere una visione a lungo termine. Ma farlo è essenziale per una buona analisi.

Vale la pena ricordare questo: in quasi tutte le guerre asimmetriche, quando la parte più forte – l’invasore o il colonizzatore – passa all’offensiva, spesso sembra ottenere un successo rapido e sorprendente.

In effetti, “shock and awe” è il nome di una dottrina militare occidentale, in particolare americana, sviluppata negli anni ’90 ed esplicitamente pubblicizzata quando gli Stati Uniti invasero l’Iraq nel 2003.

Chiamato anche “dominio rapido”, il suo obiettivo è demoralizzare e paralizzare l’avversario con l’uso di dimostrazioni di violenza schiaccianti e spettacolari.

L’obiettivo, secondo gli autori della dottrina, è quello di “sovraccaricare le percezioni e la visione degli eventi di un avversario, in modo che quest’ultimo sia incapace di resistere a livello tattico e strategico”.

Lo abbiamo visto più volte negli ultimi decenni e lo stiamo vedendo ora.

Poche settimane dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti attaccarono l’Afghanistan, rovesciando rapidamente il governo talebano con il pretesto che aveva dato rifugio a Osama bin Laden.

La fiducia degli americani in seguito a questo rapido successo apparente spinse indubbiamente Washington a passare al suo progetto successivo: l’invasione dell’Iraq nel marzo 2003.

Con il governo di Saddam Hussein rapidamente rovesciato e i carri armati americani in controllo di Baghdad, il Presidente George W. Bush pronunciò il suo famigerato discorso “Missione compiuta” il 1° maggio di quell’anno – parole che lo perseguitarono quando gli Stati Uniti si impantanarono in una guerra di logoramento contro la resistenza sia in Afghanistan che in Iraq.

Queste vittorie rapide, o almeno così sembravano, suscitarono all’epoca il timore reale che le forze americane potessero proseguire verso Damasco e Teheran, o forse verso altri ‘Stati canaglia’ che erano sulla lista dei bersagli dell’America.

Ora sappiamo, grazie ai cosiddetti Afghanistan Papers, che i guerrafondai di Washington hanno sempre riconosciuto di aver perso la guerra, ma hanno mentito al pubblico americano per quasi due decenni dicendo che stavano vincendo.

E quando il ritiro americano dall’Afghanistan avvenne nell’agosto 2021, l’umiliante partenza dall’aeroporto di Kabul fu ampiamente paragonata alle scene caotiche degli americani sconfitti che evacuavano in elicottero dal tetto dell’ambasciata statunitense a Saigon, in Vietnam.

Anche per quanto riguarda Israele, questo schema è stato evidente. Quando Israele invase il Libano nel 1982 – un assalto soprannominato “Operazione Pace in Galilea” – le sue forze dilagarono rapidamente a nord di Beirut, assediando e occupando una capitale araba per la prima volta nella storia dello stato sionista.

Israele uccise decine di migliaia di civili libanesi e palestinesi ed espulse l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Ma il successo, dal punto di vista di Tel Aviv, si trasformò rapidamente in un fallimento. Durante la lunga occupazione, la resistenza a Israele crebbe, soprattutto da parte di Hezbollah, che non esisteva nemmeno al momento dell’invasione israeliana.

Hezbollah e altri gruppi di resistenza misero in ginocchio le forze di occupazione israeliane per due decenni in un’estenuante guerra di logoramento, fino a quando Israele si ritirò dal Libano meridionale occupato, con una sconfitta nel maggio 2000.

Anche nel contesto del genocidio israeliano a Gaza sostenuto dagli Stati Uniti, le continue asserzioni di Israele di aver posto questa o quella parte di Gaza sotto il suo totale controllo, si sgretolano regolarmente. Il fatto è che la resistenza continua a combattere in ogni parte di Gaza.

Finora tutti i piani israelo-americani del “giorno dopo”, in cui Hamas sconfitto sarebbe stato sostituito da una forza palestinese collaboratrice sostenuta dagli arabi, sono crollati.

Distrarre dal continuo fallimento di un Israele esausto a Gaza, è forse uno dei fattori che spinge Israele a cercare un “successo” spettacolare in Libano.

Punto di svolta

Questo momento di grande tristezza è un punto di svolta nella lunga guerra regionale per la liberazione dal sionismo razzista, coloniale, appoggiato dall’Occidente. Ma dopo un secolo di depredazioni e orrori del sionismo, né il popolo libanese né quello palestinese si sono arresi, e non c’è motivo di credere che lo faranno ora.

Al contrario, dopo lo shock iniziale, la determinazione della resistenza non potrà che aumentare e il suo cerchio si allargherà, come è avvenuto in ogni fase della lotta di liberazione.

Né l’assassinio di Nasrallah, con bombe americane e aerei da guerra americani, e forse altra assistenza da parte di Washington, può cambiare il corso del declino del potere globale degli Stati Uniti – il potere su cui Israele fa affidamento per la sua sopravvivenza.

Ricordiamo anche che i sionisti hanno sempre usato l’assassinio come tattica principale. Tuttavia, la loro guerra non è contro singoli leader, ma contro interi popoli la cui determinazione non può essere spenta così facilmente.

Nasrallah stesso assunse la leadership di Hezbollah dopo che Israele aveva ucciso il suo predecessore Abbas al-Musawi nel 1992. Nasrallah ha poi fatto crescere l’organizzazione fino a raggiungere una forza senza precedenti.

Questa forza non si basa sulla volontà di un singolo individuo, ma su una base di sostegno profondamente impegnata nella causa e disposta – come Nasrallah stesso non ha mai mancato di sottolineare – a fare enormi sacrifici sulla strada della liberazione.

Se l’esercito israeliano ha ammesso che Hamas non può essere distrutto perché “Hamas è un’idea, Hamas è un partito”, allora che dire di Hezbollah?

La cosa più preoccupante è che la guerra per liberare la Palestina e la regione dal sionismo non sarà meno brutale per i popoli della regione rispetto alle guerre per liberare l’Algeria, il Vietnam, il Sudafrica e tanti altri luoghi presi di mira dall’impero euro-americano.

Dopotutto, gli occupanti e i colonizzatori sono gli stessi paesi, e l’odio genocida che le loro classi dirigenti nutrono nei confronti dei popoli di cui cercano di usurpare la terra e i diritti non si è mai affievolito.

Come altri prima di lui, Nasrallah ha dato la sua vita sulla strada per liberare la Palestina, e questa lotta non è finita oggi.

Ali Abunimah è direttore esecutivo di The Electronic Intifada.

https://electronicintifada.net/content/hasan-nasrallah-died-road-liberate-palestine/49071

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

3 commenti su “Hassan Nasrallah è morto sulla strada della liberazione della Palestina”

  1. Perché non si organizza in tutto il mondo un passaparola sui social in cui si chiede la pace e la creazione di uno stato palestinese? Io sono vecchia, e non uso i social, ma un movimento d’opinione mondiale potrebbe forse aiutare. Credo sia importante non nutrire ancora la violenza. Pace, giustizia e diritti per i Palestinesi

    Grazia

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