The Guardian, 14 ottobre 2021.
Da 70 anni, il fatiscente campo profughi di Dheisheh vicino a Betlemme è stato un posto per sfollati. Perché questo ‘patrimonio dell’esilio’ non ha i titoli perché l’Unesco gli conceda lo stresso status che attribuisce a Macchu Picchu e a Venezia?
Il campo profughi di Dheisheh vicino a Betlemme non assomiglia molto ai soliti siti del patrimonio mondiale dell’Unesco. Per cominciare, non ci sono bancarelle di souvenir o sciami di venditori ambulanti di bigiotteria. Invece, muri di cemento screpolato ricoperti di graffiti arabi incorniciano l’ingresso di un negozio all’angolo, dove una vecchia fotocopiatrice si trova accanto a pochi semivuoti scaffali di provviste. Un taxi si aggira su una strada piena di buche tra mucchi di blocchi di cemento rotti, mentre cavi elettrici e telefonici penzolano precariamente dall’alto.
Ma una nuova mostra alle Mosaic Rooms di Londra vuole sostenere che questo sgangherato sito di trasferimenti di massa dovrebbe essere considerato degno dello stesso status protetto di Machu Picchu, di Venezia o del Taj Mahal. “Vogliamo modificare le nozioni occidentali convenzionali di patrimonio”, afferma Alessandro Petti. “Come si può registrare l’eredità di una cultura dell’esilio? Se i siti del patrimonio mondiale possono essere determinati solo dagli stati nazionali, chi può valutare il patrimonio di un popolo senza stato?” Dal 2007, Petti lavora con Sandi Hilal, guidando il DAAR, collettivo Decolonising Architecture Art Research, muovendosi agilmente tra il mondo dell’architettura, della politica e dello sviluppo. Negli ultimi sette anni, il collettivo ha lavorato con i rifugiati palestinesi nel campo di Dheisheh per compilare un improbabile dossier da presentare all’Unesco, sostenendo “l’eccezionale valore universale” del sito in quanto luogo del più lungo e più grande sfollamento vivente al mondo.
In un processo che descrivono come “un gioco serio”, hanno usato gli arcani criteri di nomina dell’agenzia delle Nazioni Unite per il patrimonio per sovvertire l’idea di protezione del patrimonio internazionale e mettere in discussione le ipotesi sullo status di questo campo teoricamente temporaneo. “Il campo è solo un luogo di miseria”, chiedono, “o produce valori che devono essere riconosciuti e protetti?”
La mostra apre la scena con un gruppo di grandi scatole retroilluminate indipendenti nella galleria al piano terra, che mostrano foto suggestive del campo di Dheisheh. Sono state scattate da Luca Capuano, un fotografo italiano precedentemente incaricato dall’Unesco di documentare i famosi siti italiani del patrimonio mondiale. L’obiettivo di Petti e Hilal era quello di portare nel guazzabuglio improvvisato del campo profughi un po’ di quel sofisticato romanticismo delle foto notturne di Capuano accuratamente composte nei vicoli veneziani e nelle piazze delle città collinari toscane. Le scene hanno una qualità filmica seducente, con fasci di luce che si riversano dalle porte socchiuse e con vicoli ammiccanti che ti invitano dietro l’angolo. Socchiudi gli occhi e potresti essere a Venezia, di cui è inclusa una foto a titolo di confronto, che ricorda gli inizi di quella città come luogo di rifugio. È un mondo lontano dalle solite immagini dei campi profughi, raffigurati per sempre come luoghi senza speranza e di disperazione bruciata dal sole. Istituito nel 1949 per ospitare più di 3.000 palestinesi espulsi dai loro villaggi dalle milizie ebraiche durante la guerra arabo-israeliana, Dheisheh è poi cresciuto fino a ospitare 15.000 persone. È iniziato come un accampamento di tende, disposte come unità militari in un tratto di terreno ondulato affittato all’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA) dal governo giordano (che tecnicamente possiede ancora la terra). Negli anni ’50, poiché il conflitto non mostrava segni di cedimento, l’UNRWA iniziò a costruire piccoli rifugi in cemento per ogni famiglia, con una regola di un metro quadrato a persona, e un bagno condiviso ogni 15 rifugi. Col passare del tempo le famiglie hanno aggiunto altre stanze e i vari lotti sono stati aggregati, ampliati e costruiti secondo il bisogno. Più di 70 anni dopo, Dheisheh assomiglia molto poco a come si può immaginare un campo profughi. Quando l’ho visitato nel 2018, non ho trovato file di tende o rifugi, ma strade tortuose di case multipiano in cemento, un luogo urbano denso di strutture auto-costruite che si sono evolute un pezzo dopo l’altro nel corso dei decenni. Ci sono negozi e scuole, moschee e un centro comunitario, il tutto stipato in un’area di meno di mezzo chilometro quadrato. L’unico indizio che si tratta di un campo profughi è l’occasionale camion della spazzatura con il marchio dell’ONU che si aggira per le stradine strette. Le pareti sono nude e sbarre di rinforzo in acciaio spuntano dalla maggior parte dei tetti, ma c’è una buona ragione per cui tutto sembra così incompiuto. Dheisheh è il prodotto dell’essere costretti a vivere in un limbo perpetuo, con l’eterna speranza di partire un giorno, creando quello che Petti e Hilal chiamano uno stato di “provvisorietà permanente”. I quartieri sono ancora organizzati per lo più a seconda dei villaggi da cui provengono i profughi e le famiglie si aggrappano al sogno di tornare a casa nelle loro terre ancestrali, che si trovano a pochi chilometri di distanza, oltre l’impenetrabile muro di cemento della barriera di sicurezza israeliana.
“C’è una sensazione diffusa tra i rifugiati palestinesi che, se consideri il campo la tua casa, metti a repentaglio il diritto al ritorno”, afferma Hilal, cresciuta nella vicina città di Beit Sahour, un focolaio di attivismo politico. “Le persone cercano di migliorare le loro case e le condizioni di vita, ma allo stesso tempo si vergognano di considerare quella come la propria la casa”. Racconta di aver incontrato un uomo che scavava una piccola piscina nel suo giardino. Quando lei gli chiese cosa stesse facendo, lui si mise subito sulla difensiva, presumendo che lei lo avrebbe accusato di aver fatto del campo la sua dimora permanente. “Ci si vergogna di essere visti come qualcuno che si accontenta troppo facilmente.”
Anche la percezione internazionale non aiuta. Hilal descrive i “tour della miseria” che vengono condotti intorno a Dheisheh per i visitatori stranieri, e fanno parte dell’industria del turismo del disastro che ha generato attrazioni locali improbabili come l’hotel Banksy’s Walled Off a Betlemme, che vanta viste da ogni camera da letto sul muro di sicurezza in cemento coperto di graffiti. “L’unica storia riconosciuta è quella della violenza, della sofferenza e dell’umiliazione”, dice. “Come possiamo raccontare il campo in un tono più positivo?” Per la mostra londinese, hanno convertito una stanza della galleria in un soggiorno, o “madafeh”, dove l’organizzatore della comunità palestinese Omar Hmidat organizzerà incontri domenicali settimanali, in connessione con uno spazio parallelo a Dheisheh, collegato tramite Zoom. Il soggiorno è pieno di oggetti donati da espatriati palestinesi locali, come una collezione di nastri musicali, un tappeto tessuto a Gaza e l’oud (strumento musicale) di Hmidat. “È un modo per contaminare l’idea del cubo bianco [lo stile disadorno di certe gallerie]”, afferma Petti. “Vogliamo che la mostra sia un luogo attivo di raccolta e produzione.” Una terza stanza al piano di sotto mette a fuoco il diritto al ritorno dei palestinesi, con una potente esposizione dei 44 villaggi vicino a Gerusalemme e ad Hebron da cui i residenti di Dheisheh sono stati costretti a fuggire. Grandi album con le fotografie di Capuano giacciono aperti su piedistalli illuminati di diverse altezze, creando un commovente paesaggio di esilio.
Nei 70 anni trascorsi da quando le famiglie palestinesi sono state sfollate, i loro villaggi sono diventati irriconoscibili. Alcuni sono ora parchi nazionali israeliani, completi di panchine da picnic dove un tempo sorgevano le case palestinesi. Altri sono stati trasformati in siti industriali, con silos di cemento e capannoni in acciaio piantati sopra ai campi e agli alberi da frutto. Ma la maggior parte è semplicemente invasa dalla vegetazione, con pini ed eucalipti. Come dice Hilal: “Il verde è usato per nascondere i crimini”.
Nel loro libro di accompagnamento, Refugee Heritage, che descrive in dettaglio la procedura di designazione del patrimonio mondiale, il duo Petti-Hilal considera i villaggi come un sito parallelo al campo, che esiste come prodotto diretto dell’impossibilità di accedervi dal campo. Prendendo in parola l’Unesco, sottolineano che l’eccezionale valore universale di un bene del patrimonio mondiale dipende dalla sua capacità di “trascendere i confini nazionali”. Quale potrebbe essere un esempio più appropriato, sostengono, di Dheisheh e dei relativi villaggi, un sito con una doppia esistenza, “che trascende questi confini attraverso la sua realtà vissuta di apolidi, rifugiati ed esiliati”?
Il loro lavoro è reso ancora più toccante dall’impraticabilità politica del suo obiettivo. Ovviamente la loro proposta non potrà mai raggiungere l’Unesco, in quanto proveniente da un luogo extraterritoriale, svincolato da una sovranità statale, sede di un popolo apolide: non c’è stato che la presenterebbe mai.
La mostra Stateless Heritage è a The Mosaic Rooms, Londra, fino al 30 gennaio 2022.
Traduzione di Donato Cioli – AssoPacePalestina
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