I Palestinesi non vogliono, e non possono, essere ignorati

di Rashid Khalidi,

Foreign affairs, 30 giugno 2021. 

Un rinnovato movimento nazionale palestinese potrebbe ribaltare lo status quo.

Vicino al confine tra Israele e Gaza, aprile 2019. Ibraheem Abu Mustafa / Reuters

L’intensa ondata di violenza in Israele e Palestina a maggio ricorda episodi simili degli ultimi decenni. Ma ha anche diversi tratti distintivi, primo fra tutti la ritrovata unità dei Palestinesi ovunque. I Palestinesi si sono sollevati insieme contro le divisioni che Israele ha imposto loro e contro quelle create dalla miope partigianeria dei loro leader. Hanno organizzato manifestazioni in tutto il paese in risposta alla repressione israeliana nel quartiere di Sheikh Jarrah e alla moschea di al Aqsa a Gerusalemme e ai bombardamenti su Gaza che hanno ucciso oltre 250 persone. Israele ha cercato di reprimere queste proteste, portando a esplosioni di violenza di massa dirette principalmente contro i Palestinesi nelle città che si trovano all’interno di Israele come Acri, Haifa e Jaffa. Le forze israeliane hanno ucciso decine di manifestanti palestinesi in Cisgiordania. Poi, il 18 maggio, i Palestinesi di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, all’interno di Israele e nelle comunità della diaspora in Libano, Giordania e altrove, hanno organizzato uno sciopero generale, il primo a coinvolgere tutta la Palestina storica dallo sciopero generale di sei mesi del 1936.

Tuttavia, le carte in tavola rimangono sfavorevoli per i Palestinesi, e il nuovo governo israeliano non sembra più propenso del precedente a porre fine ai suoi abusi e alle politiche che hanno reso remota ogni prospettiva di una soluzione politica giusta e accettabile. Ma il fermento di una nuova generazione di Palestinesi offre qualche motivo di speranza. Un movimento nazionale palestinese rianimato può fare a meno dei postulati e dei fallimenti delle generazioni precedenti e chiarire, con le sue azioni e i suoi messaggi, che lo status quo non è più sostenibile.

Cambio di corso

Per anni, esperti e politici hanno dichiarato che i Palestinesi erano sconfitti e demoralizzati e che la loro causa aveva perso visibilità. L’amministrazione del presidente USA Donald Trump ha tradotto questa visione in politiche anti-palestinesi ancor più brutali delle precedenti. Quest’idea che i Palestinesi potevano essere tranquillamente dimenticati è stata anche alla base della normalizzazione delle relazioni tra Israele e quattro paesi arabi nel 2020. Ma la rivolta in Cisgiordania, lo sciopero generale in tutto il paese e la solidarietà della diaspora palestinese hanno prodotto un chiaro messaggio: i Palestinesi non possono essere ignorati.

Anche la copertura mediatica occidentale degli eventi di maggio si è discostata dalla norma. Per una volta, emittenti e giornali non hanno ripetuto ciecamente il discorso israeliano sul lancio indiscriminato di razzi terroristici palestinesi contro i civili israeliani, affermando che i provocatori e i colpevoli sono i Palestinesi, una litania che tali media invocano ritualmente non appena viene lanciato il primo razzo di Hamas, cancellando 54 anni di occupazione militare israeliana e 73 anni di espropriazione ai danni dei Palestinesi. Invece, proprio questi storici modelli di cronica ingiustizia e abuso sono apparsi in modo prominente sia nei media tradizionali che nei social media. Ad esempio, molti articoli hanno spiegato che le famiglie di Sheikh Jarrah previste per lo sgombero da parte dei coloni ebrei con il sostegno delle forze di sicurezza israeliane erano rifugiati sfollati dalle città di Acri e Haifa nel 1948. I resoconti dei media hanno anche notato che sebbene gli Ebrei israeliani siano autorizzati a rivendicare proprietà nella Gerusalemme est araba occupata e nella Cisgiordania, ai Palestinesi è vietato fare rivendicazioni analoghe su qualsiasi delle loro numerose proprietà confiscate da Israele in tutto il paese negli ultimi settant’anni.

Accanto a questo risveglio dei media, le persone in Occidente sembravano più consapevoli delle vere politiche messe in atto in Palestina. Naturalmente gli apologeti di Israele a Washington, Londra e Berlino hanno tirato fuori i cliché standard sul diritto di Israele all’autodifesa, ma non hanno potuto mascherare il cambiamento di tono sia nell’arena politica che nelle grandi manifestazioni a sostegno dei Palestinesi in Australia, Canada, Regno Unito, Stati Uniti e altrove. Forse per la prima volta, il discorso pubblico in tutti e quattro questi paesi (che condividono un’eredità di espropriatori dei popoli indigeni) ha caratterizzato la discussione sulla natura colonialista di generazioni di politiche israeliane nei confronti dei Palestinesi. Gli attivisti hanno rafforzato le analogie con l’oppressione evidenziata dal movimento Black Lives Matter e molti giovani americani ora collegano l’ingiustizia che hanno visto in luoghi come Ferguson, nel Missouri, a ciò che hanno visto a Sheikh Jarrah e in altri luoghi in cui le forze di sicurezza usano gli stessi gas lacrimogeni made in USA e le stesse tattiche militarizzate di polizia.

Naturalmente, anche in precedenza ci sono stati cambiamenti nella copertura mediatica e nell’opinione pubblica che sembravano oscillare a favore dei Palestinesi, e quindi non ci si può aspettare necessariamente qualche significativo cambiamento politico. Ad esempio, tali cambiamenti si sono verificati al tempo dell’assedio israeliano di Beirut nel 1982, durante la feroce repressione della prima Intifada disarmata iniziata nel 1987, e durante le tre guerre di Israele contro la Striscia di Gaza dal 2008 al 2014 (l’ultima delle quali ha ucciso oltre 2.200 persone). Ogni volta, l’assiduo lavoro di pubbliche relazioni del governo israeliano e dei suoi amici ha per lo più riparato la lacera cortina che protegge le pratiche israeliane da un vero scrutinio. In questo momento è in corso uno sforzo frenetico per fare la stessa cosa. Ma ci sono ragioni per credere che le cose potrebbero andare diversamente questa volta.

Un punto di svolta?

Il recente sconvolgimento ha portato a un momento unico, sia per il cambiamento nell’opinione pubblica internazionale sia per la nascente riunificazione del popolo palestinese a livello di base. I Palestinesi hanno un’occasione per ripristinare il loro logoro movimento nazionale, unificare i loro ranghi e concordare un’agenda strategica che si possa comunicare chiaramente a livello globale. Per realizzare questo arduo compito, dovranno sostituire le strutture politiche esistenti –in particolare il quadro messo in atto dagli accordi di Oslo, compresa la creazione dell’Autorità Palestinese– che hanno prodotto solo una generazione di leader falliti, governi repressivi, clientelismo, corruzione, smobilitazione popolare e nessuna strategia di liberazione. I due partiti politici che hanno a lungo dominato la politica palestinese, Fatah e Hamas, sembrano strutturalmente più deboli e meno popolari che mai, nonostante il notevole sostegno esterno che ricevono. Questo è vero anche per un Hamas attualmente vivace, i cui sondaggi interni prevedevano che avrebbe perso alle elezioni previste per maggio ma che sono state rinviate dal presidente dell’Autorità Palestinese, il cui mandato legale è terminato oltre un decennio fa.

Una nuova generazione di giovani attivisti palestinesi non ha tempo per gli slogan, la politica e i leader del passato. Questi attivisti operano sulla stessa lunghezza d’onda in tutta la Palestina e nella diaspora. Oggi i giovani stanno prendendo l’iniziativa politica, innescando una nuova fase dello sforzo per la liberazione della Palestina, come hanno fatto ripetutamente in passato, ad esempio lanciando lo sciopero generale del 1936 e l’intifada del 1987. Dovranno affrontare il duro compito di rovesciare la vecchia generazione di leader e le vaste strutture di sicurezza e finanziarie che proteggono questi ultimi. Ma la situazione sta cambiando, come è evidente nella recente rabbia popolare diretta contro la leadership palestinese. Nizar Banat, un severo critico dell’Autorità Palestinese, è morto mentre era sotto arresto a giugno, scatenando disordini diffusi che hanno sottolineato l’estrema fragilità del potere di questi leader.

È incoraggiante anche la volontà di molti Americani di avere uno sguardo più critico e approfondito su Israele e Palestina. I giovani, inclusi molti della comunità ebraica, sono più critici di quanto lo fossero le generazioni precedenti nei confronti dei miti che hanno a lungo protetto Israele da ogni controllo, come, ad esempio, le nozioni che “Dio ha dato questa terra agli Israeliani”; che prima della creazione dello stato israeliano, la Palestina era “una terra senza popolo”; che solo Israele “ha fatto fiorire il deserto”; e che Israele è “l’unica democrazia mediorientale”. I social media sono molto più avanti dei media tradizionali in questo senso, diffondendo immagini video indelebili delle forze israeliane che sparano gas lacrimogeni e granate stordenti nella moschea di al Aqsa, il santuario musulmano più sacro della Palestina, mentre i fedeli erano in preghiera durante il mese sacro di Ramadan; la distruzione di interi edifici a più piani a Gaza; orde ebraiche violente che si aggirano per i quartieri arabi di Gerusalemme Est e nelle città israeliane; e manifestanti palestinesi in Cisgiordania uccisi con proiettili veri. Queste cose non possono rimanere invisibili.

Queste vivide immagini hanno contribuito a perforare il bozzolo che la copertura mediatica ha fedelmente mantenuto intorno ai 54 anni di occupazione militare “temporanea” e al raffinato sistema di dominio in vigore sia all’interno di Israele che nei territori palestinesi occupati. Termini che non sono mai stati utilizzati in passato su Israele, come “razzismo sistemico”, “supremazia ebraica”, “colonialismo di insediamento” e “apartheid”, vengono dibattuti e stanno diventando parte delle conversazioni pubbliche statunitensi e israeliane di sinistra. Questo rimane vero nonostante il tentativo sempre più disperato dei difensori di Israele di dipingere il sostegno ai diritti dei Palestinesi o le critiche alle politiche di uno stato straniero come “antisemiti”. Questi cambiamenti nel discorso corrente negli Stati Uniti e in Europa potrebbero avere potenti conseguenze politiche, anche se non sembra probabile un cambiamento immediato. In definitiva, potrebbero portare a un declino dell’immenso sostegno militare, diplomatico e finanziario di cui Israele gode dai suoi alleati occidentali.

Se tutto questo sembra nuovo, e può costituire un punto di svolta, molte cose non sono cambiate. Sia negli Stati Uniti che a livello globale, rimane un attaccamento quasi irrazionale alla pretesa di una “soluzione a due stati”, l’idea che l’unico modo per portare una pace duratura nella regione sia attraverso la creazione di uno stato palestinese indipendente accanto a Israele. I fautori della soluzione dei due Stati rifiutano di riconoscerne il presupposto essenziale: la demolizione dei formidabili impedimenti strutturali, sia fisici che amministrativi, che i leader israeliani di ogni tipo hanno eretto dal 1967 per impedire la creazione di uno Stato palestinese sovrano e contiguo. Questi sforzi metodici hanno comportato l’effettiva annessione della maggior parte dei territori occupati e il trasferimento illegale di quasi 750.000 coloni (oltre il dieci percento della popolazione ebraica di Israele) in questi territori, nel contesto della massiccia costruzione di insediamenti coloniali, strade riservate, sistemi idrici e di comunicazione: il più grande progetto infrastrutturale nella storia del paese dopo il 1967.

Senza il capovolgimento dell’incorporazione strisciante di ciò che resta della Palestina nella più grande terra di Israele – incorporazione che è l’obiettivo principale della maggior parte dei partiti politici israeliani, compresi quelli che rappresentano forse 100 dei 120 membri della Knesset – l’invocazione di una soluzione a due Stati è solo una foglia di fico per l’interminabile espropriazione del popolo palestinese. Attualmente non c’è alcuna prospettiva di uno sforzo internazionale per annullare i fatti sul terreno che Israele ha creato per rendere impossibile uno stato palestinese vitale. Tuttavia, l’ostinata resistenza del popolo palestinese agli sforzi per espropriarlo e cancellarlo dalla storia potrebbe aver forzato una svolta. Sta prendendo forma un nuovo paradigma, basato su uguali diritti per tutti in Palestina e Israele, sia collettivamente che individualmente, sia attraverso una soluzione a due stati sempre più improbabile, un unico stato o entità binazionale, un quadro federale, cantonale o altro. Un numero crescente di Palestinesi e di Israeliani comprende le alte probabilità che una soluzione a due stati sia impossibile e sta esplorando alcune di queste alternative. I sostenitori di tali schemi devono offrire un’esposizione completa di come queste opzioni funzionerebbero nella pratica prima che possano rappresentare una reale attrazione. Ma la persistente opposizione di Israele a uno stato palestinese veramente indipendente rende paradossalmente ancora più urgente la necessità di queste alternative.

Questo nuovo paradigma emergente probabilmente non avrà un impatto a breve termine sulle politiche statunitensi o di altri potenti paesi. I politici statunitensi e i mandarini della politica estera, i sionisti liberali e la maggior parte degli attori internazionali sono troppo coinvolti nella soluzione dei due stati per poter abbandonare tale approccio da un momento all’altro. Nel frattempo, i principali attori internazionali, tra cui gli Stati Uniti in primis, hanno mostrato scarso interesse a impedire a Israele di bloccare il percorso verso una soluzione a due Stati. Questa acquiescenza permette a Israele di continuare la sua brutale “gestione” del suo problema palestinese, rifiutando ogni movimento verso una vera soluzione, un approccio che l’ex primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha perfezionato durante i suoi molti anni in carica.

Il nuovo governo del primo ministro Naftali Bennett seguirà probabilmente il corso tracciato dal suo predecessore, poiché la sua coalizione di governo è così disparata che non è possibile un nuovo consenso sulla questione palestinese. Nella Knesset rimane una solida maggioranza di destra su entrambe le ali del parlamento a sostegno della colonizzazione in corso nei territori occupati e della negazione dei diritti nazionali e di ogni altro tipo al popolo palestinese. Questa posizione intransigente è tra i maggiori ostacoli al cambiamento. È improbabile che un nuovo paradigma, anche quando più pienamente sviluppato, possa avere un effetto immediato nel persuadere gli Ebrei israeliani ad abbandonare uno status quo così sfavorevole per i Palestinesi.

Un movimento nazionale rinnovato 

Tuttavia, i Palestinesi hanno la capacità di cambiare questa situazione. Un movimento nazionale palestinese rianimato potrebbe sfidare e alla fine trasformare l’attuale insostenibile status quo. Un tale movimento richiederebbe cambiamenti politici estremamente difficili e una fredda rivalutazione della strategia e degli obiettivi palestinesi, possibilmente sotto la spinta di nuovi e più giovani leader che possano tracciare un nuovo approccio. Ciò comporterebbe diversi sforzi importanti. I Palestinesi devono mostrare con forza, e idealmente in modo non violento, l’insostenibilità dello status quo, cosa che hanno fatto con successo durante la prima intifada nonviolenta dal 1987 al 1991. E devono far rivivere le possibilità moribonde dell’indipendenza nazionale palestinese accanto a Israele o, più probabilmente, tracciare la visione di un futuro palestinese inserito in una nuova struttura politica postcoloniale condivisa con i loro vicini israeliani. Gli attori esterni che vogliono mantenere un’influenza sui loro clienti e alleati palestinesi favoriti possono resistere a tali cambiamenti, ma in passato i Palestinesi hanno mostrato la capacità di superare questi interventi esterni –come hanno fatto sotto la guida di Yasser Arafat dalla fine degli anni ’60 fino agli anni ’80– e potrebbero farlo di nuovo.

Il cambiamento positivo già osservato nel discorso globale sulla Palestina è in gran parte dovuto all’efficacia delle iniziative della società civile palestinese e all’attivismo giovanile sul campo, nei territori palestinesi occupati, negli Stati Uniti e altrove. Un movimento nazionale palestinese ringiovanito, unificato e democratico guidato da una nuova generazione e costruito attorno a una solida serie di obiettivi politici moltiplicherebbe tale impatto sull’opinione pubblica israeliana, statunitense e internazionale. Un messaggio politico palestinese presentato in modo autorevole, radicato nel principio di uguaglianza e sostenuto da un’azione politica, diplomatica e di massa, dimostrerebbe in modo decisivo l’insostenibilità della continua oppressione israeliana sui Palestinesi.

Queste trasformazioni nella società e nella politica palestinese possono essere lente a venire, o potrebbero arrivare rapidamente, o potrebbero non avvenire affatto. Senza tali trasformazioni, il confronto congelato tra Israele e i Palestinesi continuerà a sciogliersi, ma molto più lentamente. In ogni caso, è già palesemente chiaro che un sistema coloniale superato come quello israeliano, basato sulla supremazia di un’etnia e sulla subordinazione di un’altra, è incompatibile con i valori della democrazia e dell’uguaglianza. Sebbene siano ferocemente contestate, democrazia e uguaglianza rimangono i valori guida del ventunesimo secolo. Un movimento nazionale palestinese che si evolvesse con questi valori al centro potrebbe avere solo effetti positivi a livello locale e globale.

https://www.foreignaffairs.com/articles/middle-east/2021-06-30/palestinians-will-not-and-cannot-be-ignored

Traduzione di Donato Cioli – AssoPacePalestina

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