Una bambina, un capriccio e un trauma al checkpoint di Sheikh Jarrah

di Kareem Jubran,

 Haaretz, 3 giugno 2021. 

Soldati israeliani fanno la guardia per impedire ai Palestinesi di passare attraverso un posto di blocco israeliano all’ingresso del quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est. AHMAD GHARABLI / AFP

Da neo-nonno a volte ho il grande piacere di prendermi cura per qualche ora della mia nipotina di due anni Tia. Ma, come si sa, tutte le cose belle devono finire. Mia figlia, la madre di Tia, stava aspettando che il nonno riportasse la bambina a casa. Ho messo il seggiolino in macchina, ce l’ho assicurata e ho guidato da Beit Safafa dov’è la mia casa verso Sheikh Jarrah, dove vivono mia figlia e suo marito.

All’ingresso del quartiere di Gerusalemme Est, sono arrivato a un posto di blocco. Mi sono fermato e ho abbassato il finestrino. Un agente di polizia si è avvicinato a noi. Non appena si è avvicinato alla finestra, Tia ha iniziato a gridare: “Nonno, chiudi la finestra”. Ha urlato come se un mostro si fosse avvicinato a lei. Ho parlato con il poliziotto, sicuro che lui fosse in grado, come qualsiasi altra persona, di sentire e riconoscere l’intera gamma delle emozioni umane. Gli ho spiegato che stavo riportando mia nipote a sua madre.Tia continuava a chiedermi di chiudere la finestra.

Il poliziotto ha risposto con la freddezza e l’arroganza di chi è abituato a controllare la vita degli altri, e mi ha detto che dovevo tornare indietro, che non mi era permesso entrare nel quartiere, che non mi avrebbe lasciato passare.

Ho cercato di fare appello alla sua umanità, ma non si è mosso. Ha voltato le spalle e ha cominciato a parlare al telefono. Durante l’ora in cui sono stato lì ad aspettare, i coloni ebrei entravano e uscivano dal quartiere senza alcun problema. Non appena arrivavano ​​al posto di blocco, venvano lasciati passare. Solo loro. Signori della terra e del quartiere.

Ho aspettato in macchina. C’erano diversi agenti armati della polizia di frontiera in giro. Dopo che il poliziotto ha terminato la sua telefonata, ho ripetuto la mia richiesta, ma lui ha continuato a insistere, con lo stesso tono freddo e arrogante, che non mi era permesso di passare. Quando ho alzato la voce, chiedendo il mio diritto di passare e di restituire la bambina a sua madre che l’aspettava a casa, uno dei poliziotti mi ha puntato contro la sua arma. Tutti quelli che erano al posto di blocco, circa otto agenti di polizia e personale della polizia di frontiera, uomini e donne, sembravano pronti a tirarmi fuori dall’auto in qualsiasi momento, ad attaccarmi e ad arrestarmi. E intanto, la paura e il pianto di Tia non si sono fermati un momento.

Tia voleva tornare in braccio a sua madre, continuava a chiedere di sua madre, e io ho provato di nuovo a chiedere di lasciarmi il diritto di passare attraverso il checkpoint e riportarla a casa. Ma gli agenti di polizia mi hanno avvertito, tra urla e minacce, che se non me ne fossi andato, avrebbero dovuto usare la forza contro di me. A questo punto uno dei poliziotti mi ha ricordato che avevo con me una bambina, quindi era meglio se mi allontanavo da lì. L’ho ringraziato per la sorprendente dimostrazione di compassione e gli ho chiesto, in nome di questa stessa compassione, di lasciare che Tia tornasse da sua madre. Mi è venuta in mente la storia del cacciatore che aveva catturato una coppia di uccelli. Mentre stava per ucciderli, un granello di polvere gli entrò nell’occhio e una lacrima gli scese lungo la guancia. Allora un uccello disse all’altro: Com’è nobile, piange su di noi dal profondo del suo cuore. Piangeva mentre affilava il coltello.

Preoccupato per mia nipote, sono stato costretto a tornare indietro. Ho sentito tutta la rabbia del mondo crescere dentro di me. Mi sentivo soffocare, facevo fatica a respirare. Ho sentito l’oppressione e il controllo che milioni di persone soffrono ogni singolo giorno. Ho sentito cosa significa vivere sotto un regime di apartheid: proprio davanti ai miei occhi, gli Ebrei continuavano ad entrare nel quartiere, senza domande. Le porte si aprivano per loro, e solo per loro.

I Palestinesi che vivono a Gerusalemme vivono ogni giorno con questa realtà. Devono passare la loro vita sotto l’occupazione e l’apartheid. Pagano un prezzo alto per la loro resistenza, ma è un prezzo basso rispetto al quotidiano arrendersi alla violenza ufficiale.

Molti Israeliani si comportano come se non lo capissero, ma non c’è potere al mondo, indipendentemente dal livello di violenza usato, che possa cancellare un popolo, fargli dimenticare la sua storia o smettere di difendere la sua esistenza.

Mia nipote sta appena imparando a parlare, ma ha capito il significato più profondo del checkpoint che le ha impedito di arrivare a casa sua. Tia ha ricevuto una lezione e ha fatto conoscere i suoi sentimenti nel modo più chiaro possibile: ha rifiutato che gli altri controllassero il suo futuro. Sì, controllavano i suoi nonni e controllano ancora i suoi genitori, ma non controlleranno lei. 

Kareem Jubran è direttore di ricerca sul campo presso B’tselem e portavoce in lingua araba dell’organizzazione.

https://www.haaretz.com/opinion/.premium-a-toddler-a-tantrum-and-trauma-at-the-sheikh-jarrah-checkpoint-1.9869458

Traduzione di Donato Cioli – AssopacePalestina

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