La guerra infinita contro i Palestinesi
di Alain Gresh,
Le Monde diplomatique il manifesto, giugno 2021.
Dopo 11 giorni di conflitto, che hanno causato la morte di 230 palestinesi e 12 israeliani, Israele e Hamas hanno concordato un cessate il fuoco incondizionato. La fine delle ostilità non ha allentato le tensioni a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, né ha risolto le questioni di fondo. Finché non avranno un vero Stato, finché continuerà la colonizzazione, i palestinesi lotteranno per i propri diritti.
In Palestina, la storia si ripete. In modo regolare, inesorabile, spietato. Ed è sempre la stessa tragedia; è una tragedia che si poteva prevedere, vista l’evidenza dei fatti, ma che continua a sorprendere chi confonde il silenzio dei media con l’acquiescenza delle vittime. Ogni volta, la crisi assume contorni particolari e segue percorsi nuovi, ma può essere riassunta in una verità chiara: il persistere da decenni dell’occupazione israeliana, della negazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese e della volontà di cacciarlo dalla sua terra.
Molto tempo fa, dopo la guerra del giugno 1967, il generale de Gaulle aveva immaginato ciò che sarebbe successo: «Sui territori che ha conquistato, Israele organizza un’occupazione che non può essere mantenuta senza oppressione, repressione, espulsioni; e la resistenza che si manifesta, la definisce terrorismo (1)». E in occasione del dirottamento di un aereo israeliano nel 1969, dichiarò che l’azione di un gruppo clandestino, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), descritto all’epoca come terroristico, non poteva essere equiparata alle rappresaglie di uno Stato come Israele, che nel 1968 aveva distrutto la flotta aerea civile libanese nell’aeroporto di Beirut. Il leader francese impose poi un embargo totale sulla vendita di armi a Tel Aviv. Un’altra epoca, un’altra visione.
Il capitolo più recente di questa ricorrente catastrofe si è dunque aperto a Gerusalemme. Gli elementi sono noti: la brutale repressione di giovani palestinesi cacciati dagli spazi pubblici della Porta di Damasco e della spianata delle Moschee, dove celebravano ogni sera la rottura del digiuno del Ramadan – bilancio: più di trecento feriti; l’invasione della spianata da parte della polizia israeliana, che non ha esitato a lanciare gas lacrimogeni sui fedeli e a sparare proiettili dichiaratamente di gomma (2); l’espulsione programmata di intere famiglie dal quartiere di Sheikh Jarrah; le incursioni, al grido di «morte agli arabi», di suprematisti ebrei forti della loro recente vittoria elettorale, ottenuta grazie all’appoggio del primo ministro Benyamin Netanyahu. Violare il mese sacro del Ramadan, dissacrare un santuario dell’islam, usare la forza bruta: molte voci in Israele hanno denunciato, a posteriori, gli «errori» commessi.
Errori? Piuttosto, cieca arroganza e disprezzo nei confronti dei colonizzati. Come ha notato un giornalista di Cable News Network (Cnn), cosa potrebbero mai temere le autorità, che usano «la tecnologia per tracciare i movimenti dei telefoni cellulari, droni per monitorare i movimenti dentro e intorno alla città vecchia, e centinaia di telecamere di videosorveglianza»? Tanto più che erano sostenuti da «migliaia di poliziotti armati schierati per sedare i disordini, aiutati da camion che lanciavano quella che i palestinesi chiamano “acqua di fogna”, un liquido puzzolente spruzzato su manifestanti, passanti, automobili, negozi e case» (3).
Ma non è stata messa in conto la determinazione dei giovani di Gerusalemme i quali, senza alcuna organizzazione politica, hanno tenuto testa alle forze della repressione. Altra «sorpresa»: lo hanno fatto con il sostegno dei loro fratelli e sorelle delle città palestinesi di Israele, da Nazareth a Umm al-Fahm, infrangendo il mito di uno Stato che avrebbe trattato i suoi cittadini in modo uguale. Per anticipare queste rivolte, bastava leggere i rapporti pubblicati recentemente da due importanti organizzazioni per i diritti umani, l’israeliana B’Tselem e la statunitense Human Rights Watch, i quali spiegano come il sistema di governo in tutta la Palestina sotto mandato, non solo nei territori occupati, sia un sistema di apartheid secondo la definizione data dalle Nazioni unite, che può essere riassunta in una frase: sullo stesso territorio coesistono, a volte a pochi metri di distanza, popolazioni che non hanno gli stessi diritti, non rientrano nella stessa giurisdizione, non sono trattate allo stesso modo (4). Questa disparità produce gli stessi effetti del Sudafrica prima della caduta del regime dell’apartheid: insubordinazione, rivolte, tumulti.
Nelle città in cui sono in maggioranza, i palestinesi in Israele patiscono la pochezza degli investimenti statali, la mancanza di infrastrutture, il rifiuto delle autorità di agire contro la criminalità; nelle città miste, sono relegati in quartieri sovraffollati, costretti all’esilio dalla pressione della colonizzazione ebraica, consapevoli che l’obiettivo del governo israeliano è quello di liberarsi di tutti questi «non-ebrei». Un giovane palestinese di Israele spiega così la sua solidarietà con Sheikh Jarrah: «Succede a Gerusalemme quello che succede a Jaffa e Haifa. La società araba in Israele viene sistematicamente espulsa. Abbiamo raggiunto il punto di ebollizione. A nessuno importa se possiamo continuare a esistere, al contrario. Ci stanno spingendo via (5)».
A Lod, una città di 75.000 abitanti, gli scontri tra ebrei e palestinesi – che sono un quarto della popolazione – sono stati particolarmente brutali. I palestinesi sono ancora perseguitati dallo spettro della pulizia etnica del 1948, quando gruppi armati sionisti espulsero manu militari 70.000 persone (6). Lo stesso disegno è ancora all’opera, anche se si manifesta in altre forme: si tratta di «finire il lavoro » spingendoli fuori. Le 8.000 unità abitative in costruzione sono tutte riservate agli ebrei, e qui, come a Gerusalemme o in Cisgiordania, è praticamente impossibile per un palestinese ottenere un permesso di costruzione. Il fatto che abbia un passaporto israeliano non cambia nulla.
Il primo atto del dramma attuale si è concluso il 10 maggio. Le autorità israeliane hanno dovuto fare marcia indietro, almeno in parte. I giovani palestinesi hanno ripreso il controllo della strada; la moschea di al-Aqsa è stata evacuata; la Corte Suprema, che doveva ratificare l’espulsione di diverse famiglie da Sheikh Jarrah – come fa regolarmente con l’ebraicizzazione della Palestina (7) –, ha rinviato la decisione di un mese. Anche la manifestazione prevista per celebrare la «liberazione » della città e dei suoi luoghi sacri nel 1967 si è trasformata in un fiasco. Il suo percorso è stato cambiato per aggirare i quartieri palestinesi, confermando la divisione in due della «capitale unificata ed eterna di Israele» e la resilienza dei palestinesi: rappresentano il 40% della popolazione – anche se la municipalità dedica loro solo il 10% dei fondi (8) – erano il 25% nel 1967.
Un nuovo atto di rivolta
Lo stesso giorno, dopo aver lanciato un ultimatum che esigeva il ritiro della polizia da Gerusalemme, Hamas, al potere a Gaza, lanciava una salva di razzi contro le città israeliane, inaugurando un nuovo atto di rivolta. Immediato il fuoco di fila mediatico contro «l’organizzazione terroristica», la pedina dell’Iran, il cui ricorso alla violenza impedirebbe qualsiasi soluzione politica. Ma i «tempi tranquilli» (cioè quando solo i palestinesi venivano uccisi, senza che questo facesse mai notizia) hanno mai spinto il governo di Netanyahu a negoziare una vera pace? Come ricordava Nelson Mandela nelle sue Memorie, «è sempre l’oppressore, non l’oppresso, a determinare la forma della lotta. Se l’oppressore usa la violenza, l’oppresso non ha altra scelta che rispondere con la violenza (9)».
Né il carattere violento di Hamas né la sua etichetta di organizzazione «terroristica» hanno impedito a Netanyahu di farne un interlocutore privilegiato in diverse occasioni, fin dal primo incarico di governo nel 1996, quando si trattava di indebolire l’Autorità palestinese. In questo modo, il premier sperava di frammentare la causa palestinese tra Gaza e Ramallah – e questo gli permetteva, oltretutto, di spiegare che non era possibile negoziare con palestinesi divisi! È stato Netanyahu ad autorizzare il trasferimento di centinaia di milioni di dollari dal Qatar a Gaza per riabilitare parzialmente il territorio, sotto blocco dal 2007 e devastato durante la guerra del 2014 (10). Senza dubbio una parte di questo denaro ha permesso ad Hamas, con l’aiuto dell’Iran e del movimento libanese Hezbollah, di ricostituire e sviluppare il suo arsenale militare e le sue capacità di combattimento.
L’esercito israeliano, convinto di aver inferto colpi mortali ad Hamas nella sua offensiva del 2014 e di aver «comprato la pace» con una manciata di dollari, è stato sorpreso dal suo ingresso nella battaglia per Gerusalemme – ulteriore prova della sua arroganza e incapacità di comprendere la «mentalità dei colonizzati». Tutti i palestinesi, musulmani e cristiani, considerano Gerusalemme come il cuore della loro identità. Fotografie o dipinti della città, a volte anche modelli della moschea di al-Aqsa, adornano le loro case. La portata del movimento sviluppatosi intorno a Sheikh Jarrah, ed estesosi ai palestinesi in Israele, ha spinto Hamas a gettare il peso nella battaglia, soprattutto perché la prospettiva di un progresso politico era stata bloccata dalla decisione del presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas di rinviare le elezioni parlamentari e presidenziali – una decisione motivata dalla paura di essere ripudiato dal voto popolare e dal rifiuto di Israele di consentire il voto a Gerusalemme Est.
Impegnandosi, Hamas ha contribuito a riunire i palestinesi: quelli della Palestina mandataria, quelli dei campi profughi, ma anche la diaspora in giro per il mondo. Ne è testimonianza lo sciopero generale al quale hanno partecipato il 18 maggio quelli di Gerusalemme, quelli dei territori occupati e quelli di Israele – la prima volta in oltre trent’anni. Un successo ottenuto nonostante le continue divisioni politiche, sia tra Hamas e l’Autorità palestinese sia all’interno della stessa Fatah. Ma le divisioni avranno un peso sulle possibilità di consolidamento delle conquiste palestinesi.
Sul piano militare, l’esercito israeliano ha fatto quello che sa fare: ha applicato la dottrina del generale Gadi Eizenkot, sviluppata in seguito alla guerra del 2006 contro il Libano. Conosciuta come «dottrina Dahiya», dal nome di un quartiere nel sud di Beirut dove si trovava la sede di Hezbollah, prevede una risposta sproporzionata e «rappresaglie» contro aree civili suscettibili di servire da base per il nemico. Nessun altro esercito al mondo ha osato formulare apertamente una tale «dottrina terroristica» – anche se, naturalmente, molti non hanno esitato a metterla in pratica, si pensi agli statunitensi in Iraq e ai russi in Cecenia.
L’esercito israeliano ha anche un pretesto ideale: poiché Hamas controlla Gaza dal 2007, qualsiasi ufficio incaricato delle tasse, dell’istruzione o dell’assistenza sociale può essere qualificato come un obiettivo legittimo. Il bilancio è terribile: più di 230 palestinesi uccisi, tra cui circa 60 bambini; 1.800 feriti; 600 case e una decina di grattacieli totalmente distrutti; colpiti centri medici, università e stazioni elettriche. La Corte penale internazionale, che ha messo in agenda la situazione in Palestina, si occuperà sicuramente di questi fatti.
E il risultato di tutto questo? È «l’operazione più fallimentare e inutile di Israele a Gaza», denuncia Aluf Benn, direttore del quotidiano israeliano Haaretz. L’esercito – che si vanta ad ogni nuovo round di aver «sradicato le organizzazioni terroristiche e le loro infrastrutture» – non solo non ha anticipato nulla, ma «non ha la minima idea di come paralizzare Hamas e destabilizzarlo. La distruzione dei suoi tunnel con bombe potenti (…) non ha inflitto alcun danno serio alle capacità di combattimento del nemico» (11). Quanto alla «Cupola di ferro», il sistema di intercettazione dei razzi, ha limitato a dodici il numero di morti tra gli abitanti delle città israeliane, ma non ha impedito lo sconvolgimento della loro vita quotidiana, poiché sono stati costretti a cercare scampo nei rifugi, anche a Tel Aviv e Gerusalemme. Razzi e missili cambiano la situazione: d’ora in poi, nessuna città in Israele è sicura – lo si era già visto durante la guerra contro Hezbollah nel 2006. E per il futuro si può immaginare una guerra su più fronti: Gaza e il Libano, e anche lo Yemen, dove gli Houti hanno minacciato di rivolgere anche contro Israele la loro significativa capacità di attacco missilistico – usata per rispondere ai bombardamenti sauditi.
Già durante la guerra del 2014, gli osservatori hanno notato la crescita delle prestazioni militari di Hamas, che sono ulteriormente aumentate nel campo balistico. «Il numero di alti dirigenti di Hamas che l’esercito israeliano ha ucciso dimostra che non è una “organizzazione effimera”, come sostengono diversi analisti, fa notare Zvi Bar’el su Haaretz. Alcuni di questi uomini ricoprivano ruoli impressionanti – comandante della brigata di Gaza City, capo dell’unità di sviluppo cibernetico e missilistico, capo del dipartimento progetti e sviluppo, capo del dipartimento di ingegneria, comandante del dipartimento tecnico dell’intelligence militare, capo della produzione di attrezzature industriali. Si tratta di un esercito con un bilancio, gerarchico e organizzato, i cui membri hanno la formazione e il know-how necessari a gestire le infrastrutture, sia quelle per la sopravvivenza che quelle per le offensive (12)». Assassinare alcuni quadri di Hamas non cambierà nulla: una nuova generazione di militanti sta già emergendo dalle macerie, nutrita da una rabbia ancora più inestinguibile contro il «nemico israeliano».
Il termine «apartheid» si diffonde
Questa rabbia non è limitata ai palestinesi. È dalla seconda Intifada (2000-2005) che la mobilitazione a loro favore nel mondo arabo non raggiunge queste dimensioni. Centinaia di migliaia di persone hanno marciato in Yemen e in Iraq – ironia della sorte, uno degli obiettivi della guerra statunitense del 2003 era favorire le relazioni diplomatiche tra Baghdad e Tel Aviv. Ci sono state manifestazioni anche in Libano, Giordania, Kuwait, Qatar, Sudan, Tunisia e Marocco. La questione palestinese, lungi dall’essere stata marginalizzata dagli accordi di Abramo firmati da Israele, Emirati arabi uniti e Bahrein (13), rimane al centro dell’identità araba. Le speranze di «normalizzazione» con Arabia saudita o Mauritania sono state (temporaneamente?) deluse. Anche in Egitto, la rabbia si è espressa sui social, ma anche sulla stampa ufficiale. E il tweet a favore dei palestinesi di Mohamed Salah, il famoso attaccante di calcio che gioca per il Liverpool Fc, ha avuto grande diffusione.
La Palestina, relegata sullo sfondo dai diplomatici occidentali, è tornata al centro del dibattito. Nessun’altra causa, dalla lotta contro l’apartheid in Sudafrica, ha suscitato una tale ondata di solidarietà in tutto il mondo, dall’America latina all’Africa. Anche negli Stati uniti, molti politici democratici hanno preso posizione contro l’imbarazzante complicità di Joseph Biden, usando parole fino ad allora inaudite.
Diverse figure della sinistra statunitense non esitano più a usare termini come «occupazione», «apartheid» o «etno-nazionalismo». Per esempio, Alexandria Ocasio-Cortez, una deputata di New York, ha detto su Twitter il 13 maggio: «Parlando solo delle azioni di Hamas – che sono da condannare – e rifiutando di riconoscere i diritti dei palestinesi, Biden rafforza l’idea falsa che i palestinesi siano i responsabili dell’avvio di questo nuovo ciclo di violenza. Questo non è un linguaggio neutrale. Si sta schierando con una parte, quella dell’occupazione ». Il giorno prima, era tra i 25 eletti democratici che hanno chiesto al segretario di Stato Antony Blinken di fare pressione sul governo israeliano per fermare l’espulsione di quasi duemila palestinesi da Gerusalemme Est. «Dobbiamo difendere i diritti umani ovunque», ha twittato uno dei firmatari, Marie Newman. D’altra parte, in Europa, e in particolare in Francia, si assiste – nonostante le mobilitazioni a favore della Palestina – a un allineamento con Israele e con il suo discorso centrato sulla «guerra contro il terrorismo » e sull’«autodifesa».
Il cessate il fuoco entrato in vigore il 21 maggio durerà? Cosa succederà alle famiglie minacciate di espulsione a Sheikh Jarrah? L’Autorità palestinese sopravviverà al proprio fallimento politico? Questo non è certo l’ultimo atto. I palestinesi, al di là del luogo di residenza, hanno dimostrato ancora una volta la propria determinazione a non scomparire dalla mappa diplomatica e geografica. Dovremo aspettare la prossima crisi, con la sua scia di distruzione, morte e sofferenza, per capirlo?
Nel 1973, dopo il fallimento dei loro tentativi di recuperare per via diplomatica i territori persi nel 1967, Egitto e Siria lanciarono la guerra d’ottobre contro Israele. Intervistato a proposito di quella «aggressione», il ministro degli esteri francese Michel Jobert rispose: «È un atto di aggressione cercare di tornare a casa propria?» Cercare di far valere i propri diritti, è un atto di aggressione?
(1) Cfr. Hélène Aldeguer e Alain Gresh, Un chant d’amour. Israël-Palestine, une histoire française, La Découverte, Parigi, 2017.
(2) Cfr. Jean-Pierre Filiu, «Le mythe des “balles en caoutchouc” israéliennes», Un si proche Orient, 16 maggio 2021, www.lemonde.fr/blog/ filiu
(3) Ben Wedeman e Kareem Khadder, «Israel holds all the cards in Jerusalem, yet the city has never been more divided», Cnn, 12 maggio 2021, https://edition.cnn.com
(4) «Abusive Israeli Policies Constitute Crimes of Apartheid, Persecution», Human Rights Watch, 27 aprile 2021, www.hrw.org
(5) Nir Hasson, «“There’s systematic expulsion of Arab society in Israel, and we’ve reached a boiling point”», Haaretz, Tel-Aviv, 12 maggio 2021.
(6) Cfr. Ari Shavit, «Lydda, 1948», The New Yorker, 14 ottobre 2013.
(7) Cfr. Sylvain Cypel, «En Israël, la Cour suprême conforte les partisans de la colonisation», Orient XXI, 27 aprile 2015, https://orientxxi. info
(8) Cfr. in particolare il rapporto di B’Tselem su Gerusalemme, www.btselem.org/jerusalem
(9) Si legga «Il vangelo secondo Mandela», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2010.
(10) Si legga Olivier Pironet, «A Gaza, un popolo in gabbia», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2019.
(11) Aluf Benn, «This is Israel’s most failed and pointless Gaza operation ever. It must end now», Haaretz, 18 maggio 2021.
(12) Zvi Bar’el, «Looking for Gaza victory against Hamas, Israel lost the battle for Jerusalem », Haaretz, 15 maggio 2021.
(13) Si legga Akram Belkaïd, «Idillio tra i paesi del Golfo e Israele», Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre 2020.
Alain Gresh è il Direttore del giornale online Orient XXI.
https://ilmanifesto.it/vignetta/le-monde-diplomatique-giugno-2021/
(Traduzione di Marianna De Dominicis)
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