B’Tselem, 12 gennaio 2021.
Più di 14 milioni di persone, di cui circa la metà Ebrei e l’altra metà Palestinesi, vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo sotto un unico regime. La percezione comune nel discorso pubblico, politico, legale e mediatico è che in quest’area due separati regimi operino fianco a fianco, divisi dalla Linea Verde. Un regime, all’interno dei confini dello Stato sovrano di Israele, è una democrazia permanente con una popolazione di circa nove milioni di abitanti, tutti cittadini israeliani. L’altro regime, nei territori che Israele controlla dal 1967, il cui status finale si suppone possa essere determinato in futuri negoziati, è un’occupazione militare temporanea imposta a circa cinque milioni di sudditi palestinesi.
Nel corso del tempo la distinzione tra i due regimi si è allontanata dalla realtà. Questo stato di cose esiste da più di 50 anni, il doppio del tempo che lo Stato di Israele ha vissuto senza l’altro pezzo. Centinaia di migliaia di coloni ebrei ora risiedono in colonie permanenti a est della Linea Verde, vivendo come se fossero a ovest di questa. Gerusalemme Est è stata ufficialmente annessa al territorio sovrano di Israele e la Cisgiordania è stata in pratica annessa. Ma, soprattutto, qualunque distinzione tra le due parti dimentica il fatto che l’intera area tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano è organizzata sotto un unico principio: far avanzare e cementare la supremazia di un gruppo, gli Ebrei, su un altro, i Palestinesi. Tutto questo porta alla conclusione che non si tratta di due regimi paralleli che casualmente adottano lo stesso principio. C’è un unico regime che governa l’intera area e le persone che vi abitano, basato su un unico principio organizzativo.
Quando B’Tselem è stata fondata nel 1989, limitammo il nostro mandato alla Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est) e alla Striscia di Gaza, e ci astenemmo dall’affrontare il tema dei diritti umani entro lo Stato di Israele creato nel 1948, o dal tenere un approccio comprensivo dell’intera area tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Ma la situazione è cambiata. Il principio organizzativo del regime ha acquistato visibilità negli ultimi anni, come evidenziato dalla Legge fondamentale di Israele Stato-Nazione del Popolo Ebraico approvata nel 2018, o dal fatto che nel 2020 si è parlato apertamente di annettere in modo formale parti della Cisgiordania. Se si aggiunge questo ai fatti sopra descritti, ciò significa che quel che accade nei Territori Occupati non può più essere trattato come separato dalla realtà dell’intera area sotto il controllo di Israele. I termini che abbiamo usato negli anni scorsi per descrivere la situazione –come “occupazione prolungata” o “realtà di unico Stato”– non sono più adeguati. Per continuare a contrastare in modo efficace le violazioni dei diritti umani è essenziale esaminare e definire il regime che governa l’intera area.
Questo articolo analizza come il regime israeliano lavori per far avanzare i suoi obiettivi nell’intera area sotto il suo controllo. Non forniremo un esame storico o un giudizio sui movimenti nazionali palestinesi ed ebraici o del passato regime del Sudafrica. Sebbene siano questioni importanti, vanno oltre la portata di un’organizzazione per i diritti umani. Piuttosto, questo documento presenta i principi che guidano il regime, dimostra come esso li rende effettivi e punta alla conclusione che emerge da tutto questo, cioè come il regime dovrebbe essere definito e cosa ciò significhi per i diritti umani.
Dividere, separare, dominare
Nell’intera area tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano, il regime israeliano attua leggi, pratiche e violenze di stato volte a consolidare la supremazia di un gruppo, gli Ebrei, su un altro, i Palestinesi. Un metodo chiave per ottenere questo scopo è quello di ingegnerizzare lo spazio in modo diverso per ogni gruppo.
I cittadini ebrei vivono come se l’intera area fosse un unico spazio (esclusa la Striscia di Gaza). La Linea Verde significa poco o niente per loro: che vivano a ovest di essa, all’interno del territorio sovrano di Israele, o a est di essa, nelle colonie non formalmente annesse a Israele, è irrilevante per i loro diritti o il loro status.
Dove i Palestinesi vivono, invece, è cruciale. Il regime israeliano ha diviso l’area in diverse unità che definisce e governa diversamente, concedendo ai Palestinesi diritti differenti in ognuna di esse. Questa divisione è rilevante solo per i Palestinesi. Lo spazio geografico, che è un tutt’uno per gli Ebrei, è un mosaico frammentato per i Palestinesi:
- I Palestinesi che vivono sulla terra definita nel 1948 come territorio sovrano israeliano (talvolta detto arabo-israeliano) sono cittadini israeliani e rappresentano il 17% della popolazione israeliana. Sebbene questo status offra loro molti diritti, essi non godono degli stessi diritti dei cittadini israeliani né per legge né per consuetudine, come descritto più avanti in questo documento.
- Circa 350.000 Palestinesi vivono a Gerusalemme Est, che consiste in circa 70.000 dunam (7.000 ettari) che Israele ha annesso al suo territorio sovrano nel 1967. Sono definiti come residenti permanenti di Israele in uno status che consente loro di vivere e lavorare in Israele senza bisogno di permessi speciali, ricevere servizi sociali e assistenza sanitaria e votare alle elezioni amministrative. Ma la residenza permanente, a differenza della cittadinanza, può essere revocata in qualsiasi momento, a totale discrezione del Ministro dell’Interno. In certi casi, può anche scadere.
- Benché Israele non abbia mai formalmente annesso la Cisgiordania, tratta questo territorio come se fosse suo. Più di 2,6 milioni di sudditi palestinesi vivono in Cisgiordania, in decine di enclave scollegate, sotto il rigido ordinamento militare e senza diritti politici. In circa il 40% del territorio, Israele ha trasferito alcuni poteri civili all’Autorità Palestinese (AP). Tuttavia, l’AP è ancora subordinata a Israele e può esercitare i suoi limitati poteri solo con il consenso di Israele.
- Nella Striscia di Gaza vivono circa due milioni di Palestinesi, anche ai quali sono stati negati i diritti politici. Nel 2005 Israele ha ritirato il suo esercito dalla Striscia di Gaza, ha smantellato le colonie che vi aveva costruito e si è sottratto da qualsiasi responsabilità sul destino della popolazione palestinese. Dopo la presa di potere di Hamas nel 2007, Israele ha imposto un blocco ancora in vigore alla Striscia di Gaza. In tutti questi anni, Israele ha continuato a controllare dall’esterno quasi ogni aspetto della vita a Gaza.
Israele accorda ai Palestinesi un diverso pacchetto di diritti in ognuna di queste unità, diritti che sono comunque inferiori rispetto a quelli offerti ai cittadini ebrei. L’obiettivo della supremazia ebraica viene perseguito in modo diverso in ogni unità, e diverse sono le forme di ingiustizia che ne derivano: l’esperienza vissuta dai Palestinesi nel blocco di Gaza è differente da quella dei sudditi palestinesi in Cisgiordania, dei residenti permanenti a Gerusalemme Est o dei cittadini palestinesi nel territorio sovrano israeliano. Eppure queste sono solo varianti del fatto che tutti i Palestinesi che vivono sotto il dominio israeliano sono trattati come inferiori per diritti e status rispetto agli Ebrei che vivono nella stessa area.
Di seguito sono descritti in dettaglio i quattro principali metodi che il regime israeliano utilizza per far avanzare la supremazia ebraica. Due sono applicati in modo simile nell’intera area: (A): limitazione dell’immigrazione di non-Ebrei e (B): occupazione della terra palestinese per costruire comunità di soli Ebrei, relegando i Palestinesi in piccole enclave. Gli altri due sono attuati principalmente nei Territori Occupati: (C): restrizioni draconiane alla circolazione dei Palestinesi senza cittadinanza israeliana e (D): negazione dei loro diritti politici. Il controllo su questi aspetti della vita è interamente nelle mani di Israele: in tutta l’area Israele ha il potere esclusivo sul registro della popolazione, sull’assegnazione delle terre, sulle liste elettorali e il diritto (o il diniego) di viaggiare all’interno, o di entrare o uscire da qualsiasi parte dell’area.
A. Immigrazione: solo per gli Ebrei
Qualsiasi Ebreo/a nel mondo e i suoi figli, nipoti e coniugi hanno il diritto di immigrare in Israele in qualsiasi momento e di ricevere la cittadinanza israeliana, con tutti i diritti che ne derivano. Ricevono questo status anche se scelgono di vivere in una colonia in Cisgiordania non formalmente annessa al territorio sovrano di Israele.
Di contro, i non-Ebrei non hanno diritto a uno status legale nelle aree controllate da Israele. Il concedere uno status è a quasi completa discrezione dei funzionari: il Ministro dell’Interno (nella sovrana Israele) o il comandante militare (nei Territori Occupati). Malgrado questa distinzione ufficiale, il principio organizzativo rimane lo stesso: i Palestinesi che vivono in altri Paesi non possono immigrare nell’area tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano, anche se loro, i loro genitori o nonni vi erano nati e vissuti. Il solo modo in cui i Palestinesi possono immigrare nelle aree controllate da Israele è mediante matrimonio con una persona palestinese che già vive lì –come cittadino, residente o suddito– oltre a soddisfare una serie di condizioni e ricevere l’approvazione israeliana.
Israele non solo ostacola l’immigrazione palestinese, ma impedisce anche il trasferimento dei Palestinesi tra le varie unità, se il trasferimento –nella percezione del regime– ne accresce lo status. Per esempio, i cittadini palestinesi di Israele o i residenti di Gerusalemme Est possono facilmente trasferirsi in Cisgiordania (anche se, così facendo, rischiano di perdere i loro diritti e il loro status). I Palestinesi dei Territori Occupati non possono ottenere la cittadinanza israeliana e trasferirsi nel territorio sovrano israeliano, tranne che in rarissimi casi che dipendono dall’approvazione dei funzionari israeliani.
La politica israeliana sull’unificazione familiare illustra questo principio. Per anni il regime ha posto numerosi ostacoli alle famiglie nelle quali i coniugi vivevano in differenti unità geografiche. Nel tempo questo ha impedito ai Palestinesi che sposano Palestinesi di altre unità di acquisire lo status di quell’unità. Come risultato di questa politica, decine di migliaia di famiglie non possono vivere insieme. Quando un coniuge è residente nella Striscia di Gaza, Israele permette alla famiglia di riunirsi, ma se l’altro coniuge è residente in Cisgiordania, Israele chiede che quest’ultimo si trasferisca in modo permanente a Gaza. Nel 2003, la Knesset ha approvato un Ordine Temporaneo (ancora in vigore) che vieta il rilascio della cittadinanza israeliana o della residenza permanente ai Palestinesi dei Territori Occupati che sposano Israeliani, a differenza dei cittadini di altri paesi che sposano Israeliani. In casi eccezionali, approvati dal Ministro degli Interni, ai Palestinesi della Cisgiordania che sposano Israeliani può essere concessa la cittadinanza in Israele, ma è solo temporanea e non dà diritto a prestazioni sociali.
Inoltre Israele mina il diritto dei Palestinesi nei Territori Occupati, compresa Gerusalemme Est, di continuare a vivere dove sono nati. Dal 1967, Israele ha revocato lo status di circa 250.000 Palestinesi in Cisgiordania (Gerusalemme Est inclusa) e nella Striscia di Gaza, in alcuni casi sulla base del fatto che hanno vissuto all’estero per più di tre anni. Questo comprende migliaia di residenti di Gerusalemme Est che si sono trasferiti a pochi chilometri a est delle loro case in parti della Cisgiordania che non sono ufficialmente annesse. Tutti questi individui sono stati privati del diritto al ritorno alle loro case e alle loro famiglie, dove sono nati e cresciuti.
B. Impossessarsi di terra per gli Ebrei e affollare i Palestinesi in enclave
Israele pratica una politica di “giudaizzazione” dell’area basata sull’idea che la terra è una risorsa intesa quasi esclusivamente a beneficio del pubblico ebraico. La terra è usata per sviluppare ed espandere le comunità ebraiche esistenti e costruirne di nuove, mentre i Palestinesi vengono espropriati e rinchiusi in piccole, affollate enclave. Questa politica dell’uso della terra viene praticata all’interno del territorio sovrano di Israele dal 1948 e applicata ai Palestinesi nei Territori Occupati dal 1967. Nel 2018 questo principio basilare è stato consolidato nella Legge fondamentale di Israele Stato-Nazione del Popolo Ebraico in cui si stabilisce che “lo Stato considera lo sviluppo delle colonie ebraiche un valore nazionale e agirà per incoraggiare e promuovere la creazione e il rafforzamento di tali colonie”.
All’interno del suo territorio sovrano, Israele ha promulgato leggi discriminatorie, in particolare la Legge sulle Proprietà degli Assenti, che gli permette di espropriare vaste porzioni di terra di proprietà palestinese, compresi i milioni di dunam in comunità i cui i residenti furono espulsi o fuggirono nel 1948 e ai quali è stato proibito il ritorno. Israele ha anche ridotto in modo significativo le aree assegnate ai consigli e alle comunità locali palestinesi, che ora hanno accesso a meno del 3% della superficie totale del Paese. La maggior parte della terra loro assegnata è già satura di costruzioni. Di conseguenza, più del 90% della terra nel territorio sovrano israeliano è ora sotto il controllo dello Stato.
Israele ha usato questa terra per costruire centinaia di comunità per cittadini ebrei, ma neanche una per i cittadini palestinesi. L’eccezione è una manciata di paesi e villaggi costruiti per concentrare la popolazione beduina, che è stata spogliata della maggior parte dei suoi diritti di proprietà. Gran parte della terra su cui i Beduini vivevano è stata espropriata e registrata come terra statale. Molte comunità beduine sono state definite come “non riconosciute” e i loro residenti come “invasori.” Su terre storicamente occupate dai Beduini, Israele ha costruito comunità per soli Ebrei.
Il regime israeliano limita fortemente le costruzioni e lo sviluppo nella poca terra rimasta alle comunità palestinesi all’interno del suo territorio sovrano. Si astiene inoltre dall’elaborare piani generali che rispecchino le esigenze della popolazione e mantiene le aree di giurisdizione di quelle comunità praticamente invariate nonostante la crescita della popolazione. Il risultato è la creazione di piccole, affollate enclave dove i residenti non hanno altra scelta se non quella di costruire senza permessi.
Israele ha anche approvato una legge che consente alle comunità dotate di commissioni per l’ammissione –ce ne sono centinaia in tutto il paese– di respingere i richiedenti palestinesi per “incompatibilità culturale”. Questo impedisce di fatto ai cittadini palestinesi di vivere in comunità designate per gli Ebrei. Ufficialmente qualsiasi cittadino israeliano può vivere in qualsiasi città del paese; in pratica solo il 10% dei cittadini palestinesi lo fa. Ma anche in questo caso, essi sono di solito relegati in quartieri separati per via della mancanza di servizi educativi, religiosi e di altro tipo, per il costo proibitivo dell’acquisto di una casa in altre parti della città o a causa di pratiche discriminatorie nella vendita di terreni e case.
Il regime ha usato dal 1967 lo stesso principio organizzativo in Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est). Centinaia di migliaia di dunam, inclusi terreni agricoli e di pascolo, sono stati sottratti a soggetti palestinesi con vari pretesti e utilizzati, tra le altre cose, per creare e ampliare colonie, compresi quartieri residenziali, terreni agricoli e zone industriali. Tutte le colonie sono zone militari chiuse nelle quali ai Palestinesi è proibito entrare senza permesso. Finora Israele ha creato più di 280 colonie in Cisgiordania (Gerusalemme Est inclusa) che sono ora abitate da più di 600.000 Ebrei. Altra terra è stata utilizzata per costruire centinaia di chilometri di strade di collegamento per i coloni.
Israele ha istituto un sistema di pianificazione separato per i Palestinesi in Cisgiordania, principalmente finalizzato a impedire edificazione e sviluppo. Ampie porzioni di terra non sono disponibili per l’edificazione essendo state dichiarate terre statali, zone di esercitazioni militari, riserve naturali o parchi nazionali. Le autorità, inoltre, si astengono dal progettare adeguati piani generali che rispecchino le esigenze presenti e future delle comunità palestinesi in quel poco di terra che è stata loro concessa. Il sistema di pianificazione separato è incentrato sulla demolizione di strutture costruite senza permessi, anche qui per mancanza di altre scelte. Tutto questo ha intrappolato i Palestinesi in decine di enclave densamente popolate, essendo stato quasi completamente eliminato uno sviluppo al di fuori di esse, per uso residenziale o pubblico, infrastrutture comprese.
C. Restrizione della libertà di movimento dei Palestinesi
Israele permette ai suoi cittadini ebrei e palestinesi e ai suoi residenti di viaggiare liberamente in tutta l’area. Fanno eccezione il divieto di entrare nella Striscia di Gaza, che Israele definisce “territorio ostile”, e il divieto (per lo più formale) di entrare in zone apparentemente sotto la responsabilità dell’Autorità Palestinese (area A). In rari casi ai cittadini o residenti palestinesi è consentito l’ingresso a Gaza.
I cittadini israeliani possono anche uscire e rientrare nel paese in qualsiasi momento. Al contrario, i residenti di Gerusalemme Est non possiedono il passaporto israeliano e una lunga assenza può comportare la revoca dello status di residente.
Israele limita sistematicamente il movimento dei Palestinesi nei Territori Occupati e generalmente proibisce loro di spostarsi tra le varie unità. I Palestinesi della Cisgiordania che desiderano entrare in Israele, a Gerusalemme Est o nella Striscia di Gaza devono rivolgersi alle autorità israeliane. Nella Striscia di Gaza, dove vige un blocco dal 2007, l’intera popolazione è imprigionata poiché Israele proibisce quasi tutti i movimenti in entrata e in uscita, con l’eccezione dei rari casi che definisce umanitari. I Palestinesi che desiderano lasciare Gaza o quelli di altre unità che desiderano entrarvi devono presentare una speciale richiesta alle autorità israeliane. I permessi sono rilasciati con parsimonia e possono essere ottenuti solo attraverso un meccanismo rigido e arbitrario, un regime di permessi che manca di trasparenza e di regole chiare. Israele considera ogni permesso rilasciato a un Palestinese come un atto di grazia piuttosto che come l’adempimento di un legittimo diritto.
In Cisgiordania, Israele controlla tutte le strade tra le enclave palestinesi. Questo consente ai militari di istituire a piacimento posti di blocco volanti, chiudere i punti di accesso ai villaggi, bloccare le strade e chiudere il passaggio attraverso i posti di blocco. Inoltre, Israele ha costruito il Muro di separazione all’interno della Cisgiordania e ha designato come “zona di giunzione” la terra palestinese, compresi i terreni agricoli, intrappolata tra il Muro e la Linea Verde. Ai Palestinesi della Cisgiordania è vietato l’ingresso in questa zona, soggetta allo stesso regime di permessi.
Anche i Palestinesi dei Territori Occupati hanno bisogno del permesso israeliano per andare all’estero. Di regola Israele non consente loro di usare l’aeroporto internazionale Ben Gurion, sito all’interno del suo territorio sovrano. Essi devono volare dall’aeroporto internazionale giordano, ma solo dopo che Israele consente loro di attraversare il confine con la Giordania. Ogni anno Israele nega migliaia di richieste di attraversamento di questo confine, senza alcuna spiegazione. I Palestinesi di Gaza devono passare attraverso il valico di Rafah controllato dagli Egiziani: a condizione che sia aperto, che le autorità egiziane li lascino passare e che possano intraprendere il lungo viaggio attraverso il territorio egiziano. In rare eccezioni, Israele consente ai Gazawi di viaggiare attraverso il suo territorio sovrano in un bus navetta scortato per raggiungere la Cisgiordania e da lì proseguire verso la Giordania fino alla loro destinazione.
D. Negare ai Palestinesi il diritto alla partecipazione politica
Come le loro controparti ebraiche, i cittadini palestinesi di Israele posso intraprendere azioni politiche per promuovere i loro interessi, compreso il voto e la candidatura. Possono eleggere rappresentanti, fondare partiti o unirsi a quelli esistenti. Detto questo, i funzionari palestinesi eletti sono continuamente denigrati –un atteggiamento diffuso da figure-chiave della politica– e il diritto dei cittadini palestinesi alla partecipazione politica è sotto costante attacco.
I circa cinque milioni di Palestinesi che vivono nei Territori Occupati non possono partecipare al sistema politico che governa la loro vita e determina il loro futuro. Teoricamente, la maggior parte dei Palestinesi ha diritto di votare alle elezioni dell’AP. Tuttavia, poiché i poteri dell’AP sono limitati, anche se le elezioni si tenessero regolarmente (le ultime si sono svolte nel 2006), il regime israeliano continuerebbe a governare la vita dei Palestinesi poiché detiene i principali aspetti della gestione dei Territori Occupati, come il controllo sull’immigrazione, il registro della popolazione, la pianificazione e le politiche fondiarie, l’acqua, le infrastrutture di comunicazione, l’importazione e l’esportazione, il controllo militare su terra, mare e spazio aereo.
A Gerusalemme Est i Palestinesi si trovano tra l’incudine e il martello. In quanto residenti permanenti in Israele possono votare alle elezioni amministrative ma non alle politiche. D’altro canto Israele rende loro difficile partecipare alle elezioni dell’AP.
La partecipazione politica va ben oltre il voto o la candidatura. Israele nega ai Palestinesi anche diritti politici quali la libertà di parola e la libertà di associazione. Questi diritti consentono agli individui di criticare i regimi, protestare contro le politiche, formare associazioni per avanzare le proprie idee e, in generale, di lavorare per promuovere il cambiamento sociale e politico.
Un mucchio di leggi, come la legge sul boicottaggio o la legge sulla Nakba, hanno limitato la libertà degli Israeliani nel criticare le politiche relative ai Palestinesi in tutta l’area. I Palestinesi dei Territori Occupati affrontano restrizioni ancor più dure: non è consentito loro manifestare; molte associazioni sono state messe al bando; e quasi ogni dichiarazione politica è considerata incitamento. Queste restrizioni sono assiduamente rafforzate dai tribunali militari, che hanno incarcerato centinaia di migliaia di Palestinesi, e che sono un meccanismo chiave per sostenere l’occupazione. A Gerusalemme Est, Israele lavora per impedire qualsiasi attività sociale, culturale o politica associata in qualsiasi modo all’AP.
La divisione dello spazio inoltre ostacola una lotta palestinese unificata contro la politica israeliana. La differenza nelle leggi, procedure e diritti tra le unità geografiche e le restrizioni draconiane al movimento hanno separato i Palestinesi in gruppi distinti. Questa frammentazione non solo aiuta Israele a promuovere la supremazia ebraica, ma impedisce inoltre la critica e la resistenza.
No all’apartheid: questa è la nostra lotta
Il regime israeliano, che controlla tutto il territorio tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, cerca di far avanzare e consolidare la supremazia ebraica in tutta l’area. A tal fine ha diviso l’area in diverse unità, ognuna con un diverso insieme di diritti per i Palestinesi, sempre inferiori a quelli degli Ebrei. Come parte di questa politica, ai Palestinesi sono negati molti diritti, compreso quello all’autodeterminazione.
Questa politica è portata avanti in diversi modi. Israele progetta demograficamente lo spazio mediante leggi e ordini che consentono a qualsiasi Ebreo nel mondo o ai loro parenti di ottenere la cittadinanza israeliana, ma negano ai Palestinesi quasi completamente questa possibilità. Ha progettato fisicamente l’intera area prendendo il controllo di milioni di dunam di terra e creando comunità di soli Ebrei, mentre ha spinto i Palestinesi in piccole enclave. I movimenti sono regolati mediante restrizioni ai sudditi palestinesi e questa regolazione politica ha escluso milioni di Palestinesi dalla partecipazione ai processi che determinano le loro vite e il loro futuro, mentre li tiene sotto occupazione militare.
Un regime che usa leggi, pratiche e violenza organizzata per consolidare la supremazia di un gruppo su un altro è un regime di apartheid. L’apartheid israeliana, che promuove la supremazia degli Ebrei sui Palestinesi, non è nata in un solo giorno o da un solo discorso. È un processo che si è progressivamente istituzionalizzato e reso più esplicito, con meccanismi introdotti strada facendo nella legge e nella pratica, per promuovere la supremazia ebraica. L’insieme di questi provvedimenti, la loro pervasività nella legislazione e nella pratica politica, e il sostegno pubblico e giudiziario che ricevono costituiscono la base per la nostra conclusione, cioè che si è raggiunto il livello oltre il quale il regime israeliano si può definire come apartheid.
Se questo regime si è sviluppato nel corso di molti anni, perché questo documento viene pubblicato nel 2021? Cosa è cambiato? Negli ultimi anni si è assistito a un aumento della motivazione e della volontà dei funzionari e delle istituzioni israeliane di sancire la supremazia ebraica nella legge e di dichiarare apertamente le loro intenzioni. La promulgazione della Legge fondamentale di Israele Stato-Nazione del Popolo Ebraico e il piano dichiarato di annettere formalmente parti della Cisgiordania hanno distrutto la facciata che Israele ha mantenuto per anni.
La legge fondamentale dello Stato-Nazione, promulgata nel 2018, sancisce il diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione, escludendo tutti gli altri. Stabilisce che distinguere gli Ebrei in Israele (e nel mondo intero) dai non-Ebrei è fondamentale e legittimo. In base a questa distinzione, la legge permette la discriminazione istituzionalizzata a favore degli Ebrei per quanto riguarda colonie, abitazioni, sviluppo del territorio, cittadinanza, lingua e cultura. È pur vero che il regime israeliano già seguiva ampiamente questi principi. Ma la supremazia ebraica è stata ora consacrata in legge fondamentale, rendendola un principio costituzionale vincolante, diversamente dalla legge ordinaria o dalla prassi delle autorità, che possono essere contestate. Questo indica a tutte le istituzioni statali che non solo possono, ma devono, promuovere la supremazia ebraica in tutta l’area sotto il controllo israeliano.
Il piano di Israele di annettere formalmente parti della Cisgiordania colma anche il divario tra lo status ufficiale dei Territori Occupati (accompagnato da una vuota retorica sulla negoziazione del suo futuro), e il fatto che Israele ha effettivamente annesso la maggior parte della Cisgiordania già da molto tempo. Israele non ha dato seguito ai suoi progetti di annessione formale a partire dal luglio 2020, e da allora vari funzionari hanno rilasciato dichiarazioni contraddittorie su quel piano. Indipendentemente da come e quando Israele procederà all’annessione formale di un tipo o di un altro, la sua intenzione di ottenere il controllo permanente dell’intera area è già stata dichiarata apertamente dai più alti funzionari dello Stato.
La logica del regime israeliano, e le misure utilizzate per attuarla, ricordano il regime sudafricano che cercava di preservare la supremazia dei cittadini bianchi, anche mediante la suddivisione della popolazione in classi e sottoclassi e l’attribuzione di diritti diversi a ciascuno. Ci sono, naturalmente, differenze tra i regimi. Per esempio, la separazione in Sudafrica si basava sulla razza e sul colore della pelle, mentre in Israele si basa sulla nazionalità e sull’etnia. La segregazione in Sudafrica era manifesta anche nello spazio pubblico, sotto forma di una controllata e ufficiale divisione pubblica tra le persone basata sul colore della pelle, un livello di visibilità che Israele di solito evita. Tuttavia, nel discorso pubblico e nel diritto internazionale, apartheid non significa una copia esatta dell’ex regime sudafricano. Nessun regime sarà mai identico. “Apartheid” è da tempo un termine indipendente, consolidato nelle convenzioni internazionali, che si riferisce al principio organizzativo di un regime: promuovere sistematicamente il dominio di un gruppo su un altro e lavorare per consolidarlo.
Il regime israeliano non deve dichiararsi un regime di apartheid per essere definito come tale, né è rilevante che i rappresentanti dello Stato dichiarino genericamente di costituire una democrazia. Quel che definisce l’apartheid non è una dichiarazione, ma una pratica. Mentre il Sudafrica si è dichiarato un regime di apartheid nel 1948, è irragionevole aspettarsi che altri Stati facciano lo stesso, date le successive vicende storiche. La reazione che la maggior parte dei paesi ebbero di fronte all’apartheid del Sudafrica è probabile che dissuada altri dall’ammettere che stanno attuando un regime simile. È anche chiaro che quello che era possibile nel 1948 non è possibile oggi, sia giuridicamente sia in termini di opinione pubblica.
Per quanto doloroso possa essere guardare in faccia la realtà, è più doloroso vivere sotto uno stivale. La dura realtà qui descritta può peggiorare ulteriormente se vengono introdotte nuove pratiche, con o senza l’approvazione di apposite leggi. Tuttavia, sono delle persone che hanno creato questo regime e altre persone possono peggiorarlo o lavorare per sostituirlo. Questa speranza è la forza trainante di questo documento. Come si può lottare contro l’ingiustizia se questa è non ha un nome? L’apartheid è il principio organizzativo, ma riconoscerlo non è un motivo per arrendersi. Al contrario: è un appello al cambiamento.
La lotta per un futuro basato sui diritti umani, la libertà e la giustizia è particolarmente cruciale ora. Ci sono diverse strade politiche per un futuro giusto qui, tra il fiume Giordano e il Mare Mediterraneo, ma tutti noi dobbiamo innanzitutto decidere di dire no all’apartheid.
https://www.btselem.org/publications/fulltext/202101_this_is_apartheid
Traduzione di Elisabetta Valento – AssoPacePalestina
di questo non se ne deve parlare, ma sulla giornata della “memoria” si passa alla settimana della “memoria” prossimamente il mese della “memoria” questo si deve… a quando ” l’anno della “memoria”??
La mostruosità dell’Olocausto non si ricorda mai troppo, purché ciò non diventi uno strumento politico per proclamarsi esenti da ogni obbligo morale e giuridico.