Nel nome dei miei futuri nipoti, rifiuto di essere cittadina di uno stato di apartheid

La narrazione israeliana camuffa il vero significato dell’annessione.

di Adi Granot

Haaretz, 3 Agosto 2020

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Un soldato israeliano punta il fucile su dimostranti palestinesi durante una protesta contro il progetto israeliano di annessione di parti della Cisgiordania. Asira ash-Shamaliya, vicino a Nablus.3 luglio 2020. Raneen SawAfta/Reuters

Mio nonno, Elazar Granot è stato ambasciatore d’Israele nel Sud Africa di Nelson Mandela tra il 1994 e il 1996, immediatamente dopo la caduta del regime di apartheid. Lo scorso agosto sono stata in Sud Africa ed ho appurato con i miei occhi la realtà di quel sistema razzista e discriminatorio e le sue terribili implicazioni per la società Sudafricana fino al giorno d’oggi, 25 anni dopo.

“Apartheid” è una parola complicata e carica di significati che richiama un’idea di antagonismo. Per questo motivo, e anche perché la parola è stata clamorosamente assente in tutto il periodo in cui la notizia principale era l’annessione israeliana di parti della Cisgiordania, noi della Zulat, associazione a favore dei diritti umani, abbiamo pubblicato un documento su come la narrazione d’Israele ha lavato via e camuffato il vero significato del progetto.

Il nostro resoconto evidenzia lo slittamento che l’dea di annessione ha fatto, partendo dal lontano diritto messianico fino all’attuale piattaforma politica di tutti i maggiori partiti in Israele, dovuto in gran parte a quel discorso del lavaggio-camuffamento. Il documento rivela il gioco ben-orchestrato dal governo di destra di Netanyahu –sostenuto dalla maggior parte dei media– finalizzato a nascondere al pubblico il fatto che legalizzare per legge l’annessione significa qualificare Israele come uno stato di apartheid.

Il fatto che stiamo parlando di annessione parziale invece che totale gioca un ruolo importante. La mossa dell’annessione incompleta non solo aiuta a legittimarla agli occhi di molti Israeliani, ma permette anche allo Stato di Israele di realizzare sia l’annessione parziale che quella totale.

Gli attuali piani di annessione (principalmente il piano Trump) presentano molte somiglianze col regime di apartheid in Sud Africa non solo geograficamente ma soprattutto per la natura del regime: l’esistenza dei Bantustan, aree residenziali assegnate alla popolazione di colore, ha permesso in definitiva al governo del Sud Africa, di non dare nessun diritto alla popolazione nera esistente nel proprio territorio, adducendo che erano cittadini delle cosiddette aree autonome. Questo è esattamente il modo in cui l’annessione parziale permetterà a Israele di avere il dolce e anche di mangiarlo.

Il progetto è quello di annettere l’Area C, i blocchi di insediamenti e la Valle del Giordano, lasciando ai Palestinesi uno “stato” costituito da frammenti di territorio ed enclave remote nelle aree A e B. Questo permetterà a Israele di abbandonare qualsiasi senso di responsabilità che potrebbe ancora provare verso i milioni di Palestinesi, occupati ed espropriati per 53 anni. Allo stesso tempo ciò aiuterà Israele a mantenere sia l’autorità su tutto il territorio sognato da generazioni, oltre ad assicurarsi che nessun altra nazione, salvo Israele, esisterà mai, fra il fiume e il mare.

Prendiamo, ad esempio, una palestinese di Turmus Ayya, un villaggio dell’area B, circa 20 chilometri a Nord di Ramallah. Una volta fatta questa annessione, che tipo di vita quotidiana potrà condurre?

Da una parte continuerà a soffrire per la privazione quotidiana da parte di Israele dei diritti umani fondamentali: i soldati israeliani continueranno ad entrare nella sua abitazione nel mezzo della notte “per mostrare la loro presenza” con lo scopo di “tenere tranquilla la zona”. Dopo tutto, il suo villaggio adesso confinerà con il (nuovo) Stato di Israele.

Durante la stagione della raccolta delle olive, fondamentale per il sostentamento della famiglia per tutto l’anno, non potrà raggiungere e utilizzare i suoi terreni situati nell’Area C, espropriati ed annessi a Israele.

Quando vorrà visitare suoi familiari che vivono in altro villaggio della Cisgiordania, dovrà passare dal checkpoint di soldati armati che le ricorderanno che non ha libertà di movimento.

Ogni tanto il suo intero villaggio verrà completamente chiuso per punizione collettiva; tutte le strade di collegamento con altre enclave saranno sotto controllo israeliano; e se dovrà uscire dal suo “stato” per trattamenti medici, sarà un ufficiale israeliano a determinare il suo destino.

D’altra parte, che tipo di vita può fornire a questa donna di Turmus Ayya l’attuale “stato” palestinese? Che tipo di economia potrebbe realizzare questo stato-enclave non-sovrano? Che tipo di servizi relativi alla salute, educazione, assistenza sociale potrebbe offrire? Ed ancora, quale ricovero ospedaliero? Assistenza sociale? Raccolta rifiuti? Parcheggi?

Se c’è qualcosa che la crisi coronavirus ha insegnato a noi tutti è che il nostro benessere è costituito da migliaia di piccole cose che formano la nostra quotidianità. È facile dimenticarsi quanto importante sia ciascuna di esse nel modellare la nostra routine giorno dopo giorno.

Lo “stato” palestinese, costituito dagli avanzi dell’annessione, non sarà in grado di funzionare come entità sovrana e provvedere a fornire ai propri cittadini quelle istituzioni, servizi e condizioni di vita che permettono una vita dignitosa

In queste condizioni, quelle enclave sono destinate ad operare esattamente come i Bantustan in Sud Africa durante il regime di apartheid: apparentemente autonomi e sovrani ma nei fatti in condizioni di politica separatista, e di restrizioni legali che condanneranno le persone a subire povertà estrema ed una totale incapacità di autosostentamento, per non parlare di un eventuale sviluppo, crescita e arrivo ad uno Stato funzionante.

L’annessione non solo comporterà il protrarsi delle gravi violazioni attuali e la negazione dei diritti umani ma la situazione peggiorerà fino a diventare principio fondante del regime israeliano. Lascerà letteralmente i Palestinesi in una “terra di nessuno”, ingabbiati per sempre tra lo Stato di Israele che li ha lasciati senza niente e lo “Stato” palestinese incapace di curarsi dei suoi cittadini.

Il 1 luglio è trascorso senza nessun accadimento, ma il discorso del lavaggio-camuffamento continua senza tregua a radicarsi nel terreno –sia letteralmente che in senso figurativo– usando parole come “annessione” e “applicazione della sovranità” con lo scopo di cancellare la macchia dei suoi piani di apartheid.

Nel nome di mio nonno –che non è più con noi, ma che fu un uomo politico in Israele ai tempi in cui opporsi all’occupazione era ancora considerato essere un buon Sionista– e nel nome dei miei futuri nipoti, mi rifiuto di essere cittadina di uno Stato di apartheid.

Adi Granot è la direttrice del progetto annessione di Zulat, un’associazione per la parità e per i diritti umani. È una cantante-autrice interessata ai rapporti tra musica e politica. È laureata in relazioni politiche alla London School of Economics.

https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-in-the-name-of-my-future-grandkids-i-refuse-to-be-a-citizen-in-an-apartheid-state-1.9041792

Traduzione di Giuliana Bonosi – AssopacePalestina

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