Unire i Palestinesi con l’istruzione: cosa insegna l’esperienza.

di Sam Bahour

al-shabaka, 12 maggio 2019

Studentesse palestinesi alla 32a Cerimonia di Laurea della Al-Najah University, Nablus, Cisgiordania, 7 giugno 2012. La Al-Najah è un’università pubblica palestinese non-governativa, con 22.000 studenti e 300 professori in 19 facoltà. È la più grande università palestinese e risale al 1918. Photo by Nedal Eshtayah

Da decenni il sistema dell’educazione superiore utilizzato dalla popolazione palestinese ha subito le conseguenze della frammentazione nazionale e, allo stesso tempo, vi ha contribuito. Al momento, viste le attuali divisioni politiche e le barriere fisiche all’interno del Territori Palestinesi Occupati (TPO), tra i TPO e i Palestinesi cittadini di Israele e tra questi e i rifugiati palestinesi, è difficile ricordare un momento storico in cui l’educazione superiore abbia unito i Palestinesi. Meno di 20 anni fa, nel 2000, un numero consistente di studenti dell’università di Birzeit proveniva dalla Striscia di Gaza: erano 350, un numero crollato a 35 nel 2005. Ad oggi, è difficile per uno studente di Ramallah pensare di studiare ad Hebron. Ciascuna università accoglie studenti che vengono principalmente dalle aree limitrofe.

Nonostante gli sforzi compiuti negli anni per liberare il sistema scolastico dal giogo dell’occupazione israeliana e per utilizzare l’educazione come mezzo di riunificazione politica dei Palestinesi, la situazione non sembra essere cambiata. L’ultimo tentativo risale probabilmente al 2015. L’idea era quella di creare un’università palestinese al di fuori della Palestina per eludere le restrizioni geografiche imposte dai poteri stranieri, sia governativi sia di occupazione. L’iniziativa mirava a formare futuri leader attingendo dal potenziale palestinese in terra natìa e in terra straniera. Anche se l’università non fu mai realizzata, dallo studio di fattibilità del progetto emersero informazioni ed esperienze di valore, frutto dell’iniziativa in questione e di precedenti studi similmente orientati ad unire i Palestinesi attraverso l’educazione superiore.

In questa testimonianza, l’analista politico di Al-Shabaka Sam Bahour, fautore dell’iniziativa del 2015 per la creazione di un’università palestinese a Cipro, ci descrive innanzitutto le procedure seguite in quel progetto. Ci parla poi del tentativo di creare un’università in Cisgiordania e una nella Striscia di Gaza nei primi anni Settanta e degli ostacoli imposti dalle autorità israeliane per ambedue i tentativi. Infine, riporta il progetto di sviluppare una Università Aperta Palestinese nella seconda metà degli anni Settanta, che fu inizialmente lanciato dall’OLP in collaborazione con l’UNESCO e il Fondo Arabo per lo Sviluppo Sociale ed Economico (AFESD). Infine, l’autore elenca gli insegnamenti tratti da queste esperienze e fornisce una serie di raccomandazioni per coloro che vorranno proporre progetti simili in futuro (nota 1).

Un’università palestinese a Cipro

Nel 2015, ho iniziato a lavorare con un gruppo di colleghi per cercare di sfruttare la vasta esperienza dell’istruzione superiore palestinese nei Territori Occupati e fondare un’università al di fuori della Palestina. Questa università avrebbe dovuto riunire nelle stesse aule gli studenti dei territori occupati e studenti palestinesi provenienti da Israele e da tutta la regione, compresi i rifugiati in Libano, Siria, Giordania ed altri paesi, oltre ai Palestinesi della diaspora. Avevamo anche immaginato la partecipazione di ricercatori, docenti e personale da paesi arabi o da altri paesi solidali con la lotta palestinese.

Sarebbe stata la prima Università palestinese all’estero – un’istituzione indipendente, laica, aperta a ragazzi e ragazze, che avrebbe combinato gli elementi vincenti di tanti sistemi educativi, mostrato standard qualitativi e una filosofia internazionale, con una base autoctona che avrebbe fatto da collante tra i sistemi educativi palestinesi e quelli internazionali. Una delle ragioni principali alla base di un’università palestinese al di fuori della Palestina si può riassumere come segue: vista la frammentazione geografica, unita ad un’agenda educativa proposta dai donatori nel periodo successivo agli accordi di Oslo, era evidente che le istituzioni educative palestinesi non sarebbero state in grado di rivolgersi alla complessa totalità della popolazione palestinese, a prescindere dalla loro posizione geografica.

La sede ipotizzata era la Repubblica di Cipro, per la sua posizione strategica tra Europa e Medio Oriente e per i suoi legami economici, storici e culturali con il mondo arabo. Il fatto che Cipro facesse parte dell’Unione Europea, e che quindi richiedesse dei programmi universitari conformi a quelli dell’UE, rafforzava l’idea di sceglierla come sede, dato che anche la Palestina è piccola e aspira a un’inclusione regionale. Inoltre, quella nazione era sempre stata a sostegno della causa palestinese di liberazione ed indipendenza, per non parlare del fatto che la stessa Cipro si trovava ad affrontare l’occupazione militare turca, cosa che avrebbe potuto dare il via a uno studio comparativo per gli studenti palestinesi.

Includemmo nel nostro progetto una delle maggiori università palestinesi come partner accademico, anche se c’era una limitazione. Quella università era così scarsa di risorse finanziarie e capacità umane, che avrebbe potuto offrire poco più che la sua esperienza e il suo marchio per l’avvio del progetto. Tre dei maggiori fondi aziendali palestinesi di responsabilità sociale risposero alla nostra richiesta di risorse economiche per il lancio di uno studio di fattibilità. Nonostante i fondi raccolti non fossero molti, percepivamo l’importanza strategica di un supporto materiale raccolto dall’interno della Palestina per aiutare all’estero dei Palestinesi. Il nostro team, che contava anche un esperto palestinese di istruzione universitaria residente in Europa, si recò a Cipro e organizzò una serie di incontri con potenziali partner, membri amministrativi dell’università di Cipro, cittadini ciprioti, docenti, esperti legali e investitori.

Fu creato un gruppo LinkedIn (Academic Network for Palestine) per iniziare a individuare futuri personaggi accademici che avrebbero potuto prendere parte al progetto. Contattammo docenti e ricercatori dalla Palestina, dall’Università di Harvard e da altri atenei del mondo arabo. Circa 250 persone, tra professori e ricercatori, aderirono all’iniziativa. Cercammo anche di attuare un modello accademico che offrisse la massima flessibilità e un apprendimento personalizzato; questo modello si ricollegava a quello della Quest University Canada, la prima università canadese laica, indipendente, no-profit, con un modello di insegnamento innovativo. A differenza delle università tradizionali in cui gli studenti seguono in contemporanea diversi corsi semestrali, gli studenti della Quest si concentravano su singoli corsi “a blocco” di tre ore al giorno, ogni giorno, per una durata di tre settimane e mezzo. Vedemmo in quest’approccio un’opportunità per approfondire, esplorare e mantenere una flessibilità di apprendimento, un valore aggiunto per quegli studenti che provenivano da una regione dove tali elementi scarseggiavano.

Avendo ottenuto indicazioni positive dal nostro studio preparatorio di fattibilità, ci recammo dal nostro partner educativo e dai nostri fornitori di fondi start-up per lanciare uno studio di fattibilità completo. Tuttavia, l’università palestinese, il nostro partner accademico, non era ancora in grado di contribuire, né finanziariamente né in altro modo, alla realizzazione di uno studio di fattibilità completo. Senza il supporto di un partner accademico, i finanziatori che avevamo radunato decisero che sarebbe stato troppo rischioso continuare ad investire quando le richieste di supporto in Palestina erano in aumento. Tutti gli sforzi si arrestarono lì.

Comunque non tutto è andato perduto. Abbiamo capito che esisteva un reale interesse nell’iniziativa, avevamo creato dei buoni contatti, e una lista da cui attingere in futuro. Dall’esperienza è apparsa chiara la necessità di identificare un partner accademico fuori dalla Palestina, che avesse meno limitazioni rispetto alle istituzioni palestinesi, così come l’esigenza di diversificare le fonti di finanziamenti start-up. L’insegnamento più importante, tuttavia, lo abbiamo tratto nello scoprire che ci sono stati altri tentativi di utilizzare l’istruzione come strumento di unificazione. Questi tentativi, come il nostro, rappresentano una risorsa e uno strumento valido per coloro che vorranno cimentarsi in questo progetto, oltre ad un indicatore degli errori da non ripetere.

I tentativi di realizzare delle Università nei Territori Palestinesi Occupati e il ruolo di Israele

Forse non molti ricordano il tentativo, nei primi anni Settanta, di realizzare un’Università araba in Cisgiordania e una nella Striscia di Gaza. Il progetto fu ampiamente documentato, anche da un articolo di Mahmoud Falaha apparso nell’ottobre 1973 sul Palestinian Affairs Magazine del Centro di Ricerca dell’OLP.

Falaha evidenziava che lo scopo delle due università arabe era quello di dare agli studenti palestinesi la possibilità di conseguire una laurea senza dover andare all’estero. Nell’agosto 1972 fu istituito un Comitato Preparatorio in Cisgiordania che vide anche la partecipazione di Mohammad Ali Al-Jabari, sindaco di Hebron. Dopo aver ottenuto il permesso dal governatore militare israeliano, il Comitato Preparatorio inviò una richiesta ufficiale a Yigal Allon, l’allora Ministro dell’Istruzione e della Cultura israeliano (nota 2).

Indipendentemente, nello stesso anno, le autorità israeliane approvarono la creazione di un’istituzione universitaria con quattro dipartimenti (nota 3). Durante un incontro con Al-Jabari ed altri membri del Comitato Preparatorio, Allon confermò la realizzazione di un’Istituzione araba di Istruzione superiore (nota4). Allo stesso tempo, il Ministro riconobbe ufficialmente il Comitato Preparatorio e le sue iniziative e accettò formalmente la richiesta di Al-Jabari di autorizzare la partecipazione di professori e docenti da altre nazioni arabe e di permettere finanziamenti esteri al progetto. Allon suggerì che il comitato sfruttasse le istituzioni universitarie israeliane e, nel marzo 1973, le autorità militari israeliane approvarono la creazione dell’università.

Fu fondata un’associazione no profit per la creazione dell’università, il cui regolamento interno e le cui finalità furono pubblicati su Haaretz (nota5). I fondatori si aspettavano di avviare le attività nell’ottobre 1973, con una prima fase che avrebbe accolto circa 1000 studenti e si sarebbe sviluppata in diverse città della Cisgiordania: una facoltà di legge a Ramallah, una di arti e scienze sociali a Nablus, una facoltà di scienze naturali e agricoltura a Tulkarem e una facoltà di studi Islamici a Hebron. In linea con l’attuale sistema, lo statuto stipulava che l’università non avrebbe trattato tematiche politiche ma si sarebbe concentrata soltanto su contenuti accademici. Inoltre, i programmi universitari sarebbero stati approvati solo dopo aver attestato che non “incitassero” contro “Israele e la popolazione ebraica”.

Un altro fenomeno che ci riporta a quelli di oggi – lo sviluppo di Gaza separato da quello della Cisgiordania – ci suona familiare. Mentre questi sforzi venivano messi in atto in Cisgiordania, una delegazione da Gaza firmò un accordo con Moshe Dayan per la creazione di un’università araba a Gaza (nota 6). La delegazione era da poco rientrata dal Cairo, dove aveva trovato supporto finanziario da parte dell’Egitto qualora gli abitanti di Gaza lo avessero richiesto. L’università sarebbe stata indipendente ma avrebbe avuto bisogno di sostegno accademico, che avrebbe ottenuto dalla Hebrew University. Il tutto sarebbe iniziato, dopo l’autorizzazione delle autorità israeliane, con l’apertura di facoltà di ingegneria, agricoltura e medicina, e con l’ingaggio di docenti palestinesi dei vari paesi arabi e del mondo.

Dopo un lungo periodo di silenzio, emersero i conflitti tra Allon e Dayan in merito all’università di Gaza (nota 7). La situazione rifletteva le profonde preoccupazioni del Partito Laburista riguardo alle politiche “dei territori”. Dayan era a favore del sostegno egiziano poiché desiderava che gli abitanti dei territori fossero connessi come cittadini ai limitrofi stati arabi, mentre Allon voleva che l’università di Gaza fosse successivamente collegata a quella da istituire in Cisgiordania. Il dibattito Allon-Dayan non nasceva da un interesse all’educazione, esso affondava piuttosto le radici nelle due visioni israeliane contrastanti sul destino dei territori palestinesi occupati fino dal 1967.

La motivazione principale di Israele nel considerare queste università, aggiunge Falaha, poteva essere assimilata al sostegno dimostrato verso le elezioni municipali: scrollarsi dalle proprie responsabilità nei confronti delle persone di cui occupava il territorio, dando comunque una facciata civile all’occupazione militare. Inoltre, divenne chiaro che c’era un’influenza sionista che agiva direttamente dall’interno del Comitato Preparatorio per promuovere i propri fini in sordina. Di certo nel maggio 1973 Allon dichiarò al New Middle East Magazine di Londra, che era “naturale” che un’università araba riunisse i rappresentanti di tutte le colonie israeliane della Cisgiordania, e che questo avrebbe potuto avere implicazioni politiche future.

L’Istituto di Studi Palestinesi (IPS) riportò una protesta pubblica contro il progetto (nota 8). L’opposizione palestinese si basava su diverse ragioni: 1) il fatto che Gerusalemme non venisse considerata come sede principale dell’Università 2) il timore che l’egemonia israeliana avrebbe controllato l’università visto che veniva istituita sotto occupazione; 3) il disaccordo tra la creazione di un’università indipendente oppure di una connessa con l’Università di Giordania. La discussione si trasferì anche nelle nazioni arabe e giunse alla Lega Araba, con pareri a sfavore di un’università in Cisgiordania mentre si proponevano altri modi per permettere ai Palestinesi di accedere all’istruzione superiore nelle università degli stati arabi, tra cui anche la proposta di istituire un’università araba per studenti palestinesi al di fuori della Palestina.

Nella 59esima sessione della Lega Araba, tenutasi al Cairo nel maggio 1973, la Commissione sull’Educazione approvò la Risoluzione 3028 (7/4/1973) che invitava la Lega a condurre, in collaborazione con l’OLP, uno studio per la creazione di un’Università araba per studenti palestinesi in una nazione araba, con il contributo economico degli stati arabi. Tuttavia, come sottolineò Falaha, la risoluzione non fu mai messa in atto. Sarebbe stato meglio che gli stati arabi avessero aperto le porte dei loro atenei agli studenti palestinesi e dato loro supporto finanziario, riducendo così i costi complessivi e fornendo loro un’alternativa diretta e immediata al piano israeliano.

Una università aperta palestinese negli stati arabi

Negli anni ‘70 c’è stato un altro tentativo di fondare un’università araba per i Palestinesi, come abbiamo appreso nei nostri colloqui con i responsabili dell’istruzione superiore in Palestina e nel corso della nostra analisi dei documenti conservati  al Centro Ricerche dell’OLP e all’IPS. Questo secondo tentativo ebbe inizio nel 1975 con un idea simile, ma con una diversa finalità: una università aperta palestinese. L’OLP si era reso conto dei problemi che i Palestinesi incontravano per accedere all’istruzione superiore ed anche della discrepanza tra i contenuti dell’istruzione e i bisogni della società palestinese. Il Fondo Nazionale Palestinese si rivolse allora all’UNESCO per valutare la fattibilità di un “sistema di istruzione aperto” per i Palestinesi (nota 9).  

In collaborazione con il Fondo Arabo per loSviluppo Economico e Sociale e con l’OLP, l’UNESCO organizzò un gruppo di esperti che produsse nel 1976 uno studio preliminare di fattibilità e propose di condurre uno studio di fattibilità completo. Il dott. Ibrahim Abu-Lughod presiedeva il gruppo di studio che comprendeva alcuni dei più eminenti educatori palestinesi del momento.

Secondo lo studio di fattibilità, la motivazione di un simile progetto era innanzitutto “numerica”. Si basava cioè sulla stima che ci fossero 2.285.000 Palestinesi nell’area “al di fuori della Palestina Mandataria” e un altro 1.175.000 nell’area “all’interno della Palestina Mandataria” (Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza). C’erano in tutto 40.000 Palestinesi che si diplomavano ogni anno dalla scuola secodaria, ma 30.000 di questi “non avevano alcun accesso all’educazione superiore.”

Lo studio prendeva poi in considerazione altri fattori, tra cui soprattutto la “qualità.”  Osservava che “al momento non c’è nessun posto in cui i Palestinesi ricevano un’istruzione basata sulle priorità della società o degli individui palestinesi.” Inoltre i Palestinesi non venivano educati secondo un curriculum scelto da loro stessi, ma venivano frammentati tra Israele, i Territori Occupati, gli stati arabi e le istituzioni non-arabe. Come abbiamo già accennato, era proprio questo il motivo per cui, nel 2015, avevamo lanciato la nostra iniziativa per una università palestinese fuori dalla Palestina.

Lo studio del 1976 suggeriva poi un “sistema di apprendimento aperto,” che facesse uso delle moderne tecnologie per raggiungere la maggior parte possibile del popolo palestinese, indipendentemente da dove si trovasse, in modo da interessare grandi numeri di popolazione. Si doveva anche coniugare l’apprendimento a distanza con l’interazione faccia a faccia e con l’esperienza di lavoro pratico. Vista in retrospettiva, una simile iniziativa colpisce per il suo approccio di “apertura,” se si considera che l’università era stata concepita in era pre-internet e i suoi ideatori erano gente che viveva sotto la seria minaccia di essere ulteriormente spossessati.

Lo studio si soffermava poi sullo stesso principio di fondo che anche noi avevamo scelto come asse portante del nostro progetto: cercare di “superare i problemi causati dalla frammentazione nazionale dei Palestinesi.” Si sosteneva che l’inclusione di una consistente interazione faccia-a-faccia avrebbe non solo rafforzato l’istruzione a distanza, ma “cosa più importante, [sarebbe stato] un mezzo per superare i problemi della frammentazione nazionale.” Avrebbe cioè aiutato a superare “gli ostacoli istituzionali che impediscono ai Palestinesi di interagire.” L’Università Aperta voleva organizzare le sue reti nelle zone a maggior concentrazione di Palestinesi, sotto forma di centri regionali dotati delle opportune strutture, come una biblioteca, sale da proiezione e attrezzature audio-visive.

Anche gli obiettivi di un’altra raccomandazione erano simili a quelli del nostro più recente progetto. Per avere un senso, il curriculum doveva essere palestinese per tutto l’arco del progetto. L’Università avrebbe formato non solo dei Palestinesi, ma dei futuri leader palestinesi, ognuno nel suo settore specifico di competenza, che fossero consapevoli di chi erano e da dove venivano.

Si descriveva poi in che modo il tipo di educazione e la struttura dell’insegnamento sarebbero stati diversi da quelli di altre aree, perché legati ai bisogni presenti e futuri della società palestinese. Ad esempio, mentre “l’educazione universitaria convenzionale ha contribuito alla crescita di alcune professioni … non ha contribuito alla formazione di quadri per il personale amministrativo di ospedali e cliniche, allo sviluppo di tecnologie alimentari e così via.” Si sarebbe anche investito sull’identità palestinese e sull’eredità culturale, compresi gli aspetti che hanno a che fare con la cultura araba nel suo insieme – “esattamente quelli che mancano dal curriculum in cui i Palestinesi sono educati oggi.”

Ciò che si sarebbe insegnato doveva riguardare non solo l’identità nazionale, ma doveva essere orientato verso la formazione professionale, per salvare una società sotto attacco. Lo studio cercava di definire il tipo di corsi e programmi necessari “per educare adeguatamente i giovani palestinesi alla comprensione della loro difficile situazione.” L’ingegnere agricolo doveva essere incoraggiato a risiedere nelle zone agricole “anziché diventare un burocrate di città che sfoglia articoli di agricoltura”; l’operatore sociale doveva essere formato per servire piccole istituzioni, municipi, uffici distrettuali. La “dispersione della popolazione palestinese, le piccole dimensioni delle città in Palestina … e il grande numero di campi rifugiati rendono necessaria la presenza di pianificatori, dirigenti e ricercatori sociali … dotati di particolari capacità per risolvere i problemi.”

Si è poi affrontata la domanda chiave per qualunque mossa strategica che i Palestinesi vogliano fare: Dove? Il problema della localizzazione ha messo a dura prova gli autori dello studio, come era accaduto anche a noi nel 2015. Lo studio del 1975 prevedeva un quartier generale a Beirut o ad Amman e centri regionali in Libano, Damasco, Amman e Kuwait. Ma nel 2015 la realtà del mondo arabo per quanto concerne la libertà operativa dei Palestinesi era cambiata così drasticamente che abbiamo cercato di piazzare i nostri progetti il più vicino possibile alla regione, ma fuori dalla pesante mano dei governi arabi.

Nel 1975, l’UNESCO fu designato come “agenzia esecutiva” e contribuì con 72.000 dollari allo studio, mentre l’AFESD contribuì con 382.000 dollari. Queste due organizzazioni, insieme all’OLP, parteciparono all’accordo tripartito del 1977 che iniziò lo studio. Lo studio di fattibilità per l’università aperta palestinese costò 454.000 dollari del 1977 (circa 1,9 milioni di dollari del 2018). Il mio gruppo ed io, invece, non siamo riusciti a ottenere nemmeno una frazione di questa cifra per il nostro studio di fattibilità del 2018, a riprova del fatto che questo tipo di impegni a carattere nazionale richiedono investimenti da parte del settore pubblico e non solo interventi di privati.

Lezioni per gli educatori del futuro

Settanta anni di spoliazioni e 50 anni di occupazione militare mettono a dura prova un popolo, indipendentemente da quanto sia giusta la sua causa e da quanto sia salda la sua fermezza. I Palestinesi come collettività risentono l’impatto del conflitto con cui Israele continua a fare a pezzi il loro tessuto sociale. Ma non sono crollati e non si sono arresi. Semmai, hanno imparato. Sebbene il nostro progetto si sia incagliato in un collo di bottiglia, val la pena mettere in evidenza alcune lezioni che sono venute sia dalla nostra università del 2018 che dagli sforzi degli anni 1970.

Forse la cosa più importante è che nessuna struttura pubblica o privata può assumersi da sola la responsabilità di sviluppare un certo settore. Per quanto nobile possa essere l’intenzione di un progetto nazionale, come quello di unificare i Palestinesi per mezzo dell’istruzione, questo progetto deve essere intrapreso sotto l’egida di una guida nazionale.

In effetti, non ci si può attendere che il settore privato in Palestina si impegni più di tanto su temi nazionali, per non parlare di quelli transnazionali. A parte una manciata di imprese, molte delle quali campano su accordi di concessione, la maggior parte del settore privato in Palestina vive ai limiti della sopravvivenza. Il compito del settore privato deve essere quello di offrire posti di lavoro sostenibili e impegnarsi in una leale competizione per mantenere il costo della vita sotto occupazione ai livelli più bassi possibile. Questo è il principale valore aggiunto del settore privato in questa fase della lotta palestinese. Pensare che si possa assumere compiti che spettano agli organi politici –l’OLP– sarebbe chiedere troppo.

Per quanto riguarda le istituzioni universitarie che operano in Palestina sotto occupazione militare, esse non sono certamente in grado, dal punto di vista economico o di altra natura, di assumersi la responsabilità di educare i Palestinesi in altri paesi. Aspettarsi che il ministero palestinese dell’Istruzione e dell’Alta Formazione si faccia promotore di un simile compito sarebbe solo illusorio. Anche se il ministero ha accolto con favore il nostro progetto, il suo mandato si limita ad occuparsi dei Palestinesi che vivono nei Territori Occupati.

Il progetto di università aperta del 1970 aveva quindi i giusti interlocutori intorno al suo tavolo. A un certo punto della sua storia, l’OLP aveva abbastanza lungimiranza e onestà da mobilitare le migliori menti palestinesi intorno a progetti così ambiziosi. Oggi è indebolito e non ha né rappresentanti seri né la necessaria legittimazione. Un’intera generazione di Palestinesi è cresciuta senza avere un’idea di cosa significhi una simile rappresentanza politica. E questo catastrofico risultato è un danno auto-procurato e non causato da interventi israeliani.

La questione di dove collocare progetti nazionali rimane un dilemma per la Palestina. Per i Palestinesi è ogni giorno più difficile trovare uno spazio geografico in cui pianificare per il futuro. La Palestina rimane sotto il giogo dell’occupazione militare israeliana mentre la discriminazione verso i Palestinesi cittadini di Israele cresce a livelli di apartheid. Nella regione araba, i Palestinesi si scontrano con instabiltà politica e mancanza di libertà. In generale, paesi che oggi sembrano una possibile sede possono nel tempo diventare inadatti per i mutamenti che avvengono negli interessi di uno stato. Cipro era sempre stato un amico dei Palestinesi, così come la Grecia. Oggi le riserve di gas naturale scoperte nelle acque di Cipro hanno ribaltato quelle posizioni.

La frammentazione geografica e le sue conseguenze economiche, culturali e sociali sono disastrose per un popolo. Mentre studiavamo i vari gruppi di potenziali studenti per l’università, ci siamo resi conto di come ogni frammento geografico si sia sviluppato in direzioni del tutto diverse. A parte il nazionalismo, lo studente palestinese che viene da Gerico non ha molto in comune oggi con quelli che vengono da Nazareth, Gaza, Dubai, dal campo rifugiati di Ein al-Hilweh o da Boston. I leader israeliani sanno bene che quanto più ai Palestinesi viene negato il diritto di mescolarsi in uno spazio condiviso, tanto minore è la probabilità che essi possano minacciare seriamente l’egemonia di Israele tra il Mediterraneo e il fiume Giordano.

Eppure il popolo palestinese, che ha qui le sue origini anche se ora deve lottare, non sparirà, come la nostra storia ha dimostrato. L’istruzione potrebbe avere un ruolo fondamentale per unificare il nostro popolo. In attesa che un organismo nazionale veramente rappresentativo possa ancora una volta prendersi le sue responsabilità, una rete di educatori potrebbe trarre ispirazione dal modello dell’università aperta e dalle altre esperienze qui descritte. Poiché queste esperienze forniscono gli elementi di base per un’istruzione palestinese che potrebbe ancora essere disseminata ad ampio raggio e sfruttata localmente.

Note:

  1. Bahour ha elaborato un resoconto più dettagliato, con estratti dei documenti ed elenchi delle persone coinvolte nelle precedenti iniziative, resoconto che si può trovare in Jadaliyya ed anche nel blog dello stesso Bahour epalestine. 
  2. Haaretz 24/9/1972. 
  3. Davar 5/9/1972. 
  4. Davar 4/10/1972.
  5. Haaretz 14/3/1973. 
  6. Davar 21/9/1972. 
  7. Haaretz 1/6/1973. 
  8. Musasat Darasat Filiystaniya, 1/4/1973. 
  9. Palestine Open University, Feasibility Study, Part I, General Report, UNESCO, Paris, June 30, 1980. 

Sam Bahour

Consigliere politico di Al-Shabaka, consulente aziendale di Applied Information Management (AIM), specializzato in sviluppo d’impresa, con una particolare attenzione al settore della tecnologia informatica e delle start-up. È anche presidente di Americans for a Vibrant Palestinian Economy. Ha collaborato alla creazione di PALTEL e del PLAZA Shopping Center. È stato membro del Consiglio di Amministrazione della Birzeit University e tesoriere di quell’università. È direttore della Arab Islamic Bank e membro del consiglio di Just Vision. È co-editore di HOMELAND: Oral History of Palestine and Palestinians (Olive Branch Press). Scrive spesso di cose palestinesi e i suoi contributi si trovano su www.epalestine.com.

Traduzione di Giulia Incelli e Donato Cioli

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