THE NEW YORK TIMES, 8 GENNAIO 2018.
Il mese scorso, Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti sposteranno da Tel Aviv a Gerusalemme la loro ambasciata in Israele, facendo infuriare i Palestinesi che vogliono Gerusalemme Est come capitale di un futuro stato palestinese. Nonostante i timori che qualcuno aveva sollevato, questa mossa non ha scatenato grandi disordini nei paesi musulmani.
Mentre tutto il mondo ha respinto l’iniziativa americana (l’Assemblea Generale dell’ONU l’ha bocciata con una maggioranza di 128 a 9), è parso che gli stati arabi l’abbiano tacitamente accettata. Come riferito la settimana scorsa dal New York Times, un agente dei servizi egiziani si è addirittura rivolto ad autorevoli conduttori di talk-show chiedendo loro di dissuadere il proprio pubblico da azioni anti-israeliane.
Secondo alcuni conservatori americani, l’apatica risposta araba dimostra che Trump aveva ragione. Il Daily Caller si è compiaciuto che Trump non abbia permesso che “minacce palestinesi di violenze” influenzassero gli Stati Uniti. Douglas Murray ha scritto sul National Review che “gli Stati Uniti hanno guardato negli occhi gli uomini della violenza e, almeno per ora, hanno vinto la sfida.”
Ma questo ragionamento non coglie la ragione principale per opporsi all’annuncio su Gerusalemme, oltre alle continue sofferenze dei Palestinesi (che interessano poco ai politici americani). La decisione di Trump non è disastrosa perché rischia di provocare disordini, ma perché, alla lunga, pregiudica quelle poche possibilità che restano per una soluzione a due stati del conflitto israelo-palestinese. E l’alternativa ai due stati è uno stato unico, un grande Israele che include i territori occupati. Questo singolo stato può essere ebraico o può essere democratico, ma non può essere entrambe le cose. La decisione di Trump sull’ambasciata è stata quindi un altro chiodo sulla bara del sionismo liberale.
Quando l’amministrazione ha annunciato il progetto di spostare l’ambasciata, ha affermato inizialmente che non intendeva pregiudicare lo status di Gerusalemme in un futuro accordo di pace. Ma sia i Palestinesi che gli Israeliani hanno capito che Trump stava dando carta bianca al governo israeliano per continuare a pretendere altro territorio palestinese.
Poco dopo l’annuncio di Trump, il comitato centrale del partito al governo, il Likud, ha approvato una mozione che chiede l’annessione de facto delle colonie israeliane in Cisgiordania. La Knesset ha approvato un provvedimento in base al quale sarà necessaria una super-maggioranza per rinunciare alla sovranità di Israele su qualunque parte di Gerusalemme, rendendo così sempre più irraggiungibile un accordo di pace con i Palestinesi.
Mustafa Barghouti, un membro del consiglio centrale dell’OLP, mi ha detto che prima della decisione di Trump “c’era un processo di pace congelato,” ma molti pensavano che potesse essere riattivato. “Trump ha ucciso quella possibilità,” ha aggiunto.
Sembra che questo sia stato il frutto di una scelta consapevole. Michael Wolff, nel suo nuovo libro “Fire and Fury” sull’amministrazione Trump, scrive che Steve Bannon vantava le conseguenze dello spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme come una campana a morto per le aspirazioni nazionali palestinesi. “Sappiamo verso cosa stiamo andando,” avrebbe detto Bannon al deposto direttore generale di Fox News, Roger Ailes. “Lasciamo che la Giordania si prenda la Cisgiordania, lasciamo che l’Egitto si prenda Gaza.”
Malgrado le fantasie da Grande Gioco di Bannon, questo non succederà. Invece, se si preclude la possibilità di uno stato palestinese, Israele avrà la responsabilità di tutto il territorio che adesso controlla. Ci sarà un unico stato; la domanda è che tipo di stato sarà. Nella destra israeliana, qualcuno prevede un sistema in cui la maggior parte dei Palestinesi rimanga indefinitamente senza uno stato e sia sottoposta a un sistema giuridico diverso da quello che governa i cittadini israeliani. Yoav Kish, un parlamentare del Likud, ha elaborato un piano in cui i Palestinesi della Cisgiordania avrebbero una limitata autonomia amministrativa locale: non sarebbero cittadini, ma “residenti dell’Autonomia.” I sostenitori di Israele detestano sentire qualcuno che usa la parola “apartheid” per descrivere le condizioni del paese, ma non esiste un altro termine per un sistema in cui un gruppo etnico comanda su un altro, confinandolo in piccole isole di territorio e negandogli piena rappresentanza politica.
Il termine “apartheid” diverrà sempre più inevitabile man mano che un numero, piccolo ma crescente, di Palestinesi passerà dalla lotta per l’indipendenza alla richiesta di pari diritti nel sistema in cui vivono. “Se ora gli Israeliani insistono nella distruzione totale della soluzione a due stati, l’unica alternativa che ci rimane come Palestinesi è una soluzione a un solo stato che sia però completamente democratico,” dice Barghouti, uno stato in cui “tutti abbiano esattamente uguali diritti.”
Inutile dire che Israele non accetterà mai una cosa simile. Anche se la situazione demografica della regione è questione controversa come tutte le altre, è probabile che i Palestinesi diventino presto la maggioranza della popolazione in Israele e territori occupati. Se a tutti loro venisse dato il diritto di voto, Israele cesserebbe di essere uno stato ebraico.
Ma per la maggior parte del mondo, compresa la maggior parte della diaspora ebraica, sarà molto difficile trovare una giustificazione decente per opporsi a una campagna palestinese per l’uguaglianza dei diritti. Ai difensori di Israele non resterà che imitare ciò che William F. Buckley disse una volta a proposito delle [leggi di segregazione di] Jim Crow per il Sud. Nel 1957, si poneva la domanda retorica se il Sud bianco avesse il diritto di prevalere “politicamente e culturalmente in zone in cui non prevaleva numericamente.” La “meditata risposta,” concludeva, era un sì, data la superiore civiltà della comunità bianca.
È impossibile prevedere per quanto tempo Israele potrebbe reggere un simile sistema. Ma il sogno del sionismo liberale sarebbe morto. E forse, con l’estrema destra al potere sia qui che al di là [dell’Atlantico], è già morto.
Traduzione di Donato Cioli